di Caterina Orsenigo
Qualche settimana fa è uscito in Italia il nuovo film di Xavier Dolan, La mia vita con J. F. Donovan.
Ma siccome io di cinema non so molto e questo blog tendenzialmente non parla di cinema, lo userò soltanto come scusa per poter parlare di lui, perché non l’ho mai fatto e mi sembra una grave mancanza.
Nei suoi 10-11 anni di carriera ha girato 7 film (l’ottavo è stato presentato ora a Cannes ma non è ancora giunto al cinema), due dei quali forse si possono o si potranno (quanto tempo ci vuole? 5 anni sono troppo pochi? Forse 10?) già annoverare tra i classici. Quindi se gli ultimi film sono dei bei film ma con qualche difetto e non dei capolavori, non gli si può in nessun modo rompere le balle. (Questo per mettere le mani avanti).
Uno di questi due “classici” è in realtà il suo film che sento meno “mio”, anche se mi ricorderò per sempre le mani di Antoine-Olivier Pilon che aprono l’inquadratura mentre lui corre sullo skate in mezzo alla strada con Wonderwall che rimbomba in tutto il cinema e tutti, magari a bassa voce magari ad alta voce, magari quasi in silenzio dicono “woooh”. Però insomma non mi concentrerò su Mommy, ma sul “classico” precedente.
Ma andiamo con ordine. Io e Xavier siamo cresciuti insieme. Nel senso che lui è nato 25 giorni prima di me, il 20 marzo dell’89. Per un giorno non è anche lui ariete, ma magari è cuspide, non lo so in effetti.
Nel maggio 2010 lui aveva 21 anni come me ed era a Cannes, presentava nella sezione Un Certain Regard un film splendido che se ci penso sento ancora Dalida cantare “e vincerà, bang bang, chi al cuore colpirà”, e rivedo la potenza che avevano – lui insieme a Monia Chokri e Neils Schneider – bellissimi nella loro assolutezza di gioventù e desiderio, nei loro costumi sguardi colori perfetti. Era Les Amours imaginaires ed è stato il primo colpo di fulmine. Devo averlo visto al cinema pochi mesi dopo, appena trasferita a Parigi, probabilmente nel cinema MK2 che c’è affianco al Pompidou dove più tardi, forse in una retrospettiva, ho potuto guardare anche J’ai tué ma mère, che Xavier aveva scritto, prodotto, diretto, recitato e montato nel 2009, quando cioè io, sua coetanea, mi stavo occupando di uscir viva dai primi esami all’università. Per fortuna i film li davano almeno in parte sottotitolati in francese, perché il suo québequois era veramente ostico e probabilmente mi sarei persa la metà dei dialoghi. L’avevo amato. Per la sua inquietante consapevolezza e perché aveva un mondo da proporre, delle lenti precise che erano sue e di nessun altro con cui raccontarlo e restituirlo, quel mondo. Qualcosa di raro.
Da allora Xavier è sempre stato un compagno di viaggio. Guardavo le sue interviste, lo trovavo bellissimo e geniale, rappresentava il mio ideale di essere umano oltre il genere e le preferenze sessuali, i suoi film non rivendicavano, ma raccontavano storie di amore amicizia desideri rapporti umani, profondi unici e universali assieme, e lui stesso era così libero.
Aveva una voce, un occhio che erano suoi e si riconoscevano da lontano.
E poteva capitare che uno dei miei più grandi amici, ai tempi sognante ventiduenne aspirante regista di teatro e cortometraggi, lo incontrasse nascosto nel cappuccio di una felpa, seduto a scrivere al tavolino di un bar accanto a Beaubourg, e che si sedesse con lui e che bevessero insieme un caffè e che parlassero di progetti, film, idee e lui quindi si facesse ancora più vicino e umano.
Poi gli anni sono passati e sono usciti altri film, e ogni nuovo film correvo a vederlo subito perché lo aspettavo come 10 anni prima potevo aspettare il nuovo libro di Harry Potter. Ed era sempre un rito, c’era qualcosa di importante in quei momenti che si condividevano fisicamente o virtualmente con le persone con cui prima avevo condiviso quel pezzo di vita parigina e l’inizio dell’amore per Xavier, quando ancora in Italia non lo conosceva nessuno, quando ancora lui aveva 20 anni e raccontava i nostri vent’anni.
Soprattutto, nel 2012, mentre tutti aspettavano la fine del mondo, è arrivato Laurence Anyways. Che ha irrigidito persino noi, che lo ammiravamo da sempre. Ci ha fatti fermare un istante e restare con la bocca semi aperta, per un attimo esitanti, perché, cacchio, era diventato grande. Cacchio, dobbiamo aver detto o pensato uscendo dal cinema. In quel film per la prima volta non recitava (piccolo cameo a parte), faceva lui per primo un passo indietro, imparava a prendere le distanze da ciò che raccontava, superava l’entusiasmo adolescenziale dei film precedenti per fare qualcosa di nuovo. E se sempre avevamo ammirato quel suo sguardo acuto e lucido sulle cose ora colpiva per una consapevolezza ancora più profonda, più grande, più tragica.
Laurence anyways racconta di un fallimento. O di un’impossibilità.
Racconta di una coppia splendida, complice, che si ama di un amore spontaneo, entusiasta, onesto. Finché un giorno lui, Laurence, rivela a lei, Fred, il suo desiderio di diventare una donna. Fred, non senza inizialmente essere spaventata, decide di restare al suo fianco e sostenerlo. Per un po’ tutto sembra funzionare. Lei gli insegna a truccarsi, lo aiuta a vestirsi, insieme attraversano il cambiamento, riescono a essere felici nella fatica che il cambiamento comporta. Ma poi lentamente la società li vince, tutto intorno si fa più difficile, i dubbi di parenti e amici li assillano, lui viene licenziato, la loro forza contro tutti non basta più, entrano in crisi, si lasciano. Lei si sposa con un uomo come altri, ha un figlio, una vita e un amore mediocri. Laurence cambia sesso, ha un’altra compagna. In diversi momenti si rincontrano. Non smettono mai di amarsi visceralmente. Non sono in grado di essere felici, di trovare quella complicità e quell’entusiasmo verso la vita, di brillare ed essere magici, se non insieme. Ma insieme non riescono a tornare.
Io e il mio amico giovane e sognante aspirante regista abbiamo discusso e litigato per un pomeriggio intero, forse per tutta la vita, per quel film. Perché secondo me loro avrebbero potuto essere felici ma non hanno avuto il coraggio o la forza di esserlo nonostante tutto: il film parlava insomma di un fallimento. Secondo lui, invece, di un’impossibilità.
Due modi diversi di leggere la tragedia, forse qualsiasi tragedia.
Ma l’importante è che Xavier aveva centrato uno dei temi del nostro tempo e l’aveva fatto da adulto, con una potenza disarmante, con immagini vulcaniche come quella sorta di videoclip dentro al film in cui Fred e Laurence camminano sul ponte dell’Île au noir e tutto intorno piovono vestiti colorati e la musica è quella minimale, ripetitiva, metallica di A new error (titolo quasi didascalico) dei Moderat. Anche qui: “woooh”.
Aveva scritto un classico, toccante ironico e perfetto. Aveva ventitré anni. E anche noi.
Foto di Antonio Cansino da Pixabay