Bowie, Simon Critchley, Edizioni Il Mulino, 2016
“Comincerò con una confessione piuttosto imbarazzante: nessuno, in tutta la mia vita, mi ha dato più piacere di David Bowie. Può darsi, naturalmente, che questo la dica lunga sulla qualità della mia vita. Non fraintendetemi: ho avuto i miei bei momenti, qualcuno addirittura insieme ad altre persone. Ma se parliamo di felicità continua e duratura nel corso dei decenni, nulla può competere col piacere che mi ha dato Bowie”.
Così inizia “Bowie” di Simon Critchley, un filosofo inglese, nato nel 1960, professore alla New School for Social Research di New York.
L’amore totalizzante di Simon è una folgorazione istantanea, un colpo di fulmine estetico e morale, un faro nel buio, un appiglio improvviso agognato e inaspettato, un baluardo contro la noia e la tristezza grigia della periferia londinese degli anni 70. L’evento che gli cambia la vita per sempre ha una data precisa: il 6 luglio 1972 il dodicenne Simon vede per la prima volta Bowie esibirsi in tv, alla nota trasmissione della BBC Top of the Pops.
Bowie cantava Starman, accanto a lui c’era Mick Ronson.
Quello fu il preciso istante in cui migliaia di ragazzi inglesi capirono che, forse, dopotutto, c’era spazio anche per loro, come una massa di diseredati, incompresi, soli, spaesati piccoli umani, alle prese non solo con la morale vittoriana ma anche con le famiglie divise, i genitori che si separavano e divorziavano, in quella esplosione contraddittoria di liberazione del costume che si affacciava al mondo (raccontata anche da Nick Hornby). Loro, i piccoli straniti, scoprirono che esisteva un altro profeta, che non moltiplicava pani e pesci, ma che diceva loro che la diversità era bella, che non li faceva più sentire dei mostri, ma che prospettava loro una luce nuova – Now she walks through her sunken dream, to the seat with the clearest view, and she’s hooked to the silver screen.
La luce di Bowie era una fosforescenza lisergica di ambiguità infinita e impossibile da categorizzare: era un uomo? Era una donna? Era un alieno?
Sì, era tutto ciò, guardava i piccoli uomini dall’alto del suo glamour freddo e distante, ma allo stesso tempo empatico e colmo di compassione, era l’Uomo Venuto dallo Spazio a promettere una nuova vita, una nuova terra, una nuova sessualità senza confini e senza giudizi.
Era il Travestito con la faccia impiastricciata, il trucco pesante, la pelle diafana, la magrezza a immagine e somiglianza dei ragazzi anni 70 (poche proteine, freddo, maglioni infeltriti), e loro lo amavano – Hot tramp i love you so, come un Gesù del Glam Rock, portatore di un messaggio ecumenico di libertà assoluta.
Per Simon, così come per molti altri di noi, Bowie non fu, e non è, solo un cliché, o la rockstar più grande di tutti i tempi, è qualcosa di più: la colonna sonora della vita, che, a partire da quella scoppiettante agnizione aristotelica, ha fatto da contrappunto alla narrazione interiore dei momenti più insondabili e più significativi dell’esistenza.
“Come David Hume ha dimostrato molto tempo fa, la nostra vita interiore è costituita da cumuli disordinati di percezioni, sparsi come biancheria sporca nelle stanze della nostra memoria”: per questo il cut-up che caratterizza i testi di Bowie vi si adatta alla perfezione “molto più di qualsiasi forma di naturalismo”.
L’apparente nonsense di Life on Mars? ha per noi molto più senso di una narrazione lineare e compiuta, perché la vita interiore non è mai lineare e compiuta, ma è appunto un continuo cut-up in cui stratificazioni ancestrali riemergono quando meno te lo aspetti, e tu, strano piccolo uomo, fremi ad un ricordo che ha significato solo per te. E per Bowie.
Bowie dava un senso e un significato, e Ronson era il suo Dottor Watson, l’altra monade che faceva dei due non più due monadi ma un duetto inarrivabile: David e Mick, i due marziani, evanescenti e astrali, eppure umanissimi e raggiungibili. I lustrini a creare l’illusione ottica, a confondere le acque della morale tradizionale, a disegnare una strada luminosa nel buio della banalità.
Let all the children boogie