E tutto divenne luna, Georgi Gospodinov, Voland, 2018
La raccolta di racconti E tutto divenne luna dell’autore bulgaro Georgi Gospodinov è pervasa in ogni sua pagina da un’unica atmosfera, specifica, ben riconoscibile, ma non così facile per me da descrivere. Provo allora a partire dall’effetto che mi ha fatto la brevissima storia Una fotografia, autobiografica, in cui l’autore parla di un progetto fotografico cui ha partecipato, cui si riferisce approssimativamente chiamandolo “Scrittori vivi nei cimiteri” e non citando il nome del giornalista e fotografo tedesco che lo ha ritratto. Nel racconto, Gospodinov per un attimo guarda lui stesso attraverso l’obiettivo la tomba di sua nonna, accanto alla quale sarà fotografato, che si trova vicina a quella di Kale, zia morta bambina a quattro anni, e ha una visione delle due e di tutti gli altri ospiti delle tombe, vivi, intenti a mettersi in posa. Oltre alla personale fascinazione per i cimiteri che ho da sempre, leggendo di questa scena il primo sentimento che si è impadronito di me è stata una curiosità selvaggia di vedere questa fotografia, la tomba, la faccia del nostro, la luce che c’era proprio quella sera che è finita nel libro che tengo tra le mani. Mi fiondo in rete, ci metto un po’ ma, alla fine di alcune peripezie che includono un uso spasmodico di Google Translate per il tedesco, scovo quello che con ogni probabilità è il progetto fotografico in questione, “Solange ich lebe, kriegt mich der Tod nicht: Friedhofsgänge mit Schriftstellern” (più o meno “Finché vivo, la morte non mi acchiapperà: giretti per cimiteri con scrittori”) e perfino la fotografia che ritrae Gospodinov. È il cimitero con erba alta, rovi e frutteti selvatici, abbandonato, del racconto, lo scrittore ha esattamente l’espressione malinconica che mi aspettavo. Mi immagino per un attimo tutti quei morti resuscitati dietro di lui. Il fatto di vedere in faccia, sul mio computer, da Pisa, il tizio che sta dentro al libro e pure in piedi nel cimitero di un paesino sperduto della Bulgaria, dove andava con sua nonna, da bambino, quarant’anni prima, mi suscita la stessa sensazione di ciascuno dei suoi racconti. È una continua nostalgia, per lo sfasamento costante nel tempo e nello spazio in cui si muovono i personaggi, come fantasmi che popolino case altrui ma in qualche modo familiari, forse appartenute loro in passato, in sogno o solo nel desiderio. Un uomo che vaga per Lisbona, segretamente in cerca di una donna conosciuta trent’anni prima e mai più rivista, come guidato in ogni sua mossa dalla tensione amorosa verso di lei per quanto non ne ricordi più bene il volto, misteriosamente sfuggito pure a una fotografia. Un matrimonio finto – è la scena di un film – che per di più ha luogo senza gli sposi, che si trovano altrove, con una finta madre e una finta figlia che finiscono per infilarsi nei ruoli sul serio, e con le comparse che hanno vestiti di una quarantina d’anni prima, figli tutti emigrati dalla Bulgaria all’estero, fame vera e agnello da mangiare solo per finta, sete vera e grappa finta (salvo poi rimediare). Due amanti lontanissimi che si parlano al telefono oltre i fusi orari, mentre lei fa colazione e lui beve l’ultimo Martini della giornata, che non vi dico poi cosa fanno ma solo che si tratta, per me, della storia di Natale più romantica mai sentita. E così via, uno struggimento continuo durante il quale però, se siete come me, riderete un sacco perché la scrittura di Gospodinov è dotata di una grande ironia, in alcuni punti appena accennata e altrove caricata fino a toni farseschi. Insomma, l’unico tipo di scrittura sentimentale che onestamente consiglierei.
(E no, la fotografia del cimitero bulgaro fantasma non ve la metto, non c’è gusto sennò).
[Immagine di copertina: Georgi Gospodinov fotografato da Alberto Cristofari, 2015].