di Salvatore Cherchi
A settembre 2018, in occasione della terza edizione del festival Firenze Rivista, con gli amici de L’Eco del Nulla e il collettivo In fuga dalla bocciofila, ideammo un incontro dal titolo “Il cinema italiano fa schifo”. L’idea era quella di smontare la retorica di un tormentone spesso ripetuto senza realmente conoscerlo, il cinema italiano.
Raccogliemmo poi le idee in un numero speciale, nel quale scrissi di Lo chiamavano Jeeg Robot (Gabriele Mainetti, 2015), un film che trova la quadra tra i temi ricorrenti del cinema nostrano – una storia di borgata – e le pellicole “di genere”, in questo caso il supereroistico. La formula di Mainetti sembrava ben rispondere all’imbarazzante quesito: perché in Italia non si riescono a fare film di genere decenti?
Tuttavia, cinque anni dopo, film che hanno seguito quella formula se ne sono visti pochi, a voler essere generosi. Mainetti, dal canto suo, uscirà a breve con Freaks Out, mentre è previsto un riadattamento di Diabolik da parte dei Manetti Bros. Vedremo cosa sarà, ma intanto, nel deserto delle sale lasciato dai postumi del Covid, è spuntata una cattedrale, eretta con una formula quasi anacronistica per il nostro cinema: quella del Kolossal, un tipo di produzione in cui l’Italia disse la sua negli anni d’oro di Cinecittà ma che poi, vista l’enorme quantità di denaro e maestranze che richiede, è stata abbandonata.
Contro ogni senso e criterio logico dunque, nel 2020 esce nelle sale Creators-The Past, lungometraggio scritto, diretto, musicato e prodotto da Piergiuseppe Zaia, insieme a Eleonora Fani. Si tratta del primo episodio di una trilogia a metà strada tra il fantasy e lo sci-fi, con tanto di cast internazionale: Gérard Depardieu, Bruce Payne, William Shatner, etc.
Sospettoso ma al contempo sedotto dall’ecletticità del progetto, ingrigito per il lacunoso palinsesto proposto dai cinema ora, possedendo uno sconto del 50% sul biglietto d’ingresso, decido di andare a vederlo.
Terminata la visione però, mi è venuto da piangere. Perché per me il cinema italiano non fa schifo, ma questo film sì. È, in una parola, tremendo. Ma per capirlo, argomentiamo.
La trama
Partiamo dal contesto: l’universo è dominato dai Creatori, divinità aliene che regnano su pianeti dotati di vita, tra cui la Terra. Ogni tot anni questi pianeti vengono “allineati”, e quando ciò avviene, i Creatori si riuniscono e ognuno mette a disposizione il proprio Lens, uno strumento a forma di geoide che custodisce i segreti del pianeta che governano (una sorta di hard disk con tanto di password d’accesso).
Il primo capitolo della trilogia inizia con Lord Kanaff (Marc Fiorini), il dio-creatore-governatore della Terra, che si rifiuta di prendere parte all’allineamento. Il consiglio invia al suo cospetto Lady Airre (Eleonora Fani, anche cosceneggiatrice del film), per farsi consegnare il Lens e destituirlo dal suo incarico. Nel frattempo un altro creatore, Lord Kal (Bruce Payne), trama nell’ombra: il suo pianeta sta morendo, e con esso il suo popolo, perciò vuole impossessarsi della Terra. Per farlo, fa una capatina qui e arruola una squadra di uomini influenti – avidi banchieri, luminari della scienza privi di morale, pericolosi mafiosi, vanitosi sceicchi arabi, uomini di chiesa corrotti – e li fa riunire nel “Castello dei Potenti” (sic!), un luogo dove si orchestrano le sorti dell’umanità. Anche Lady Airre ha non ben definiti interessi sulla Terra, e decide così di fare due figli qui usando il DNA di Gesù. Uno di questi è un bambino che vive nel presente della storia: il 2012, mentre l’altro (il Re Scorpione) vive nel 1331. Perché? Non è chiaro.
In questa lotta tra divinità aliene, si inserisce la vicenda di un giovane dottore di Ivrea: Alex (interpretato dall’artista norvegese Pellek), che in modo maldestro e comico entra in possesso del Lens di Lord Kanaff (qualcuno glielo tira letteralmente in faccia) e scopre il complotto orchestrato da Lord Kal, perché tra gli affiliati della Setta dei Potenti c’è la dott.ssa Ferrari, un medico super-cattivo che tiene prigioniera Sofy (Jennifer Mischiati), un emissario di Lady Airre, che Alex libererà per poi innamorarsene.
Non entriamo ulteriormente nei dettagli, ma aggiungiamo un particolare curioso: a un certo punto nel film compare Mauro Biglino, nel ruolo di sé stesso. Chi non sa chi sia, può fare una rapida ricerca sul web. Chi lo conosce invece, avrà intuito come la trama del film sia una riscrittura fantasy/sci-fi dei testi e delle tesi dello scrittore italiano, rinforzata qui e là da alcuni complottismi e profezie diffuse su internet (l’anno dell’allineamento è, guarda caso, il 2012).
La regia
La prima cosa che ho fatto dopo aver visto il film è capire chi fosse Piergiuseppe Zaia. Si tratta di un pianista e compositore, nonché cantante lirico, con la passione per il cinema, e la sua esperienza dietro la macchina da presa è maturata attraverso la direzione di video musicali. In effetti nel film ci sono alcune clip suggestive, ben girate e con un’estetica dal taglio pubblicitario. Ma nell’insieme la regia è un fiasco, e non c’è uno straccio di idea di montaggio o fotografia a salvarla in corner.
Il film è una lunga sequenza di scene statiche, prive di armonia e consequenzialità, incollate tra loro attraverso un montaggio didascalico che usa la dissolvenza nera per passare da un punto all’altro della storia. Ogni scena racconta un frammento di trama, ma quasi mai si collega col frammento precedente o seguente. Si ha così la sensazione di guardare una serie di clip montate nell’esatto ordine in cui sono state girate. La fotografia infine, priva di tono e profondità, è incapace di accordare un minimo registro emotivo ogniqualvolta sarebbe necessario, specie quando la recitazione è completamente fuori registro.
Il cast e la performance
Dicevamo la recitazione, appunto: se si esclude il doppiaggio degli attori internazionali (affidato a Giancarlo Giannini, Luca Ward etc.), per il resto – e lo dico senza nessuna ironia – siamo ai livelli di Occhi del Cuore e Medical Dimension. Il film è ricco di scene recitate e dirette “alla cazzo di cane!”, ad esempio: quando Alex finisce nelle segrete dell’ospedale e scopre i loschi piani della dott.ssa Ferrari; quando la dott.ssa Ferrari rivela a una sua complice l’idea di scatenare una pandemia globale (!); quando Alex e Sofy scappano, si nascondo in un motel e fanno l’amore; quando il cugino di Alex apre il Lens e scopre la vera storia della resurrezione di Gesù; quando i potenti, riuniti nel Castello dei Potenti (!),condannano il Maestro di Fede (Gérard Depardieu) perché non abbastanza cattivo; quando Lady Airre va a Venezia a cercare la password del Lens di Kalaff, o quando i sue due figli si scontrano in cima alla torre del castello nel 1331; o quando… insomma, si è capito. Il regista sembra incapace di coordinare gli attori in campo, fatto salvo per i già citati Bruce Payne, Gérard Depardieu o William Shatner, che se la sanno cavare da soli e fanno il minimo sindacale per far risultare le scene dei creatori le uniche digeribili.
I Creatori, tra costumi, CGI e tutto il resto
Salviamo il salvabile: i costumi dei Creatori sono curati e mostrano un accenno di fantasia – è possibile vederli qui – e questo trasmette l’idea di un lavoro, almeno su questo lato, ragionato, curato e professionale. Idem la computer grafica, benché alla fine si riduca a un susseguirsi di intermezzi estetici privi di fantasia e reale utilità (vedi alla voce “prigionia di Lord Kanaff”).
Tuttavia ciò non basta a dare uno spessore concreto all’ambigua figura dei Creatori, di cui sappiamo poco e nulla: quali sono i loro obiettivi pratici sui pianeti, cosa fanno per governare il loro mondo, che rapporto hanno con le creature che li abitano, come sono nati, qual è il loro ruolo nell’universo, quali super-poteri o tecnologie possiedono, etc.
Non è ben chiaro, inoltre, se siano figure più simili a divinità dell’olimpo o entità aliene che dominano e si spartiscono l’universo. Hanno poteri di trasmutazione e trasferimento che ricordano delle figure divine, ma agiscono (almeno i cattivi) per interessi simili a quelli di creature mortali. Poi si continua a ripetere che sono otto, ma solo cinque di loro sono “tangibili”, gli altri tre sono figure in CGI sullo sfondo, fatte a immagine e somiglianza dell’immaginario collettivo degli alieni: i grigi. Non parlano e non intervengono mai durante il consiglio, e tutto fa pensare che siano semplici figure riempitive, al che ci si chiede: perché? Non si poteva far sì che i Creatori fossero cinque, tanti quanti gli attori a disposizione per interpretarli? Mauro Biglino sa qualcosa?
Tanta è la confusione sotto il cielo ma forse questi quesiti verranno svelati nei successivi capitoli della trilogia. E ciò significa che ci saranno, i successivi capitoli? Probabile, perché tutto in questo film fa trasparire una sola cosa: la necessità dell’eccesso.
L’amico che era con me a vedere il film ha riassunto bene in una sola parola questa sensazione: megalomania. Dalla storia, eccessiva nel suo ingarbugliarsi e rimescolare un insieme di elementi che in superficie appaiono affini ma che, messi insieme, si dimostrano indigesti e grotteschi: mi riferisco tanto alla figura dei Creatori stessi, né carne né pesce, quanto alla volontà di voler raccontare di rapimenti alieni, viaggi nel tempo, teologia e simbolismo, complottismo da poteri forti, massoneria e chi più ne ha più ne metta (il tutto con un’estetica prettamente fantasy poi).
Alla messa in scena, eccessiva nel suo voler rifarsi allo stile del Kolossal, che necessita di mettere in campo una struttura organizzativa colossale appunto, ben oliata e in grado di funzionare come un’orchestra in perfetta armonia. Qui invece ogni comparto va per i fatti suoi e ciò che vien fuori è un prodotto cacofonico e stridente: nella storia raccontata, di cui abbiamo detto; nella scelta delle location, che rimbalza di continuo tra l’universo intero, i suoi mondi e la provincia piemontese; nella scelta degli attori, che alterna un cast professionale a degli improvvisati che a malapena hanno il physique du rôle per stare in scena; nella regia che, come detto, ha poche idee, confuse e mal realizzate.
Uno è poco e due son… no, uno basta.
Creators-The Past non è un film riuscito male nel senso generale dell’espressione, potenzialmente migliorabile dunque. No. È un film da ripensare, riscrivere e rigirare da zero, ma a qualcuno interessa? Perché, per come si presenta, nel suo narcisistico eccesso (vedi alla voce “cameo del regista nei panni di Gesù Cristo in croce”), mi è sembrato il tentativo di confezionare un prodotto pubblicitario, il cui fine non è quello di sbancare al botteghino (altrimenti perché farlo uscire ora?) o riscrivere le regole del cinema di genere italiano, ma quello di fungere da importante prodotto mediatico nel portfolio di chi l’ha ideato, scritto, musicato e girato.
Per questo Creators-The Past non lo annovererei tra i prodotti che contribuiscono a definire il cinema italiano, trattandosi appunto del divertissement di chi ha la disponibilità, pratica ed economica, di fare un film, e decide, senza troppa modestia, di farlo in grande, esagerato, eccessivo. In una parola: megalomane, ma con risultati tremendi.