di Afshin Kaveh
Ammetto fin dalle prime battute che un titolo così categorico e pretenzioso non possa far altro che fuorviare il lettore e, contemporaneamente, far inciampare chi ne scrive. Eppure mi sento di dire che immaginare un simile siparietto – confuso e dalle conseguenze goffe allo stesso tempo – possa essere del tutto consono sia all’opera che agli operanti qui presentati. Fortuna vuole che il nome del film qui analizzato racchiuda in sé sia l’una che gli altri, risparmiandomi la noia delle presentazioni di circostanza: La guerra lampo dei Fratelli Marx, prodotto, realizzato e distribuito nel 1933. Certo, la prima storta la si ha proprio con il violento impatto contro l’intestazione originale del lungometraggio che, come da tradizione e costume, ha dovuto affrontare le bizzarre interpretazioni e traduzioni nostrane: arriva infatti a noi come La guerra lampo dei Fratelli Marx, ma prendeva il largo dal Nuovo Mondo (anche se il desiderio di definirlo “huxleyanamente” Mondo Nuovo potrebbe essere un ottimo occhiolino provocatorio) col titolo di Duck Soup. Si deve tener conto e menzionare l’omonimia con un cortometraggio della coppia Laurel e Hardy del 1927 (la loro prima comparsa da protagonisti come uno dei duo più iconografici della storia del cinema, pur non presentando ancora le caratteristiche e i nomi di Stanlio e Ollio per cui sono ancora conosciuti) ma, in verità, lo stesso si trovava inserito nella lunga lista dei film perduti e lo fu per quasi cinquant’anni, sino al ritrovamento di una copia nel 1974, escludendolo a lungo da qualsiasi circuito, Bel Paese incluso (dove invece il Duck Soup dei Marx sarà bandito dal signor Mussolini, provocando un giustificato senso d’orgoglio nel gruppo comico di fratelli), non dandoci dunque alcun indizio sul mancato utilizzo del nome originale della pellicola.
Tra le due opere vi è un singolo e sottile filo di continuità, ovvero quello dato dalla presenza di Leo McCarey, supervisore alla regia del primo e regista vero e proprio del secondo, il quale aveva voluto platealmente prendere in prestito il titolo già utilizzato nella sola intenzione di riciclarlo nelle vesti di un’altra significazione. Ma quale? A primo impatto l’unico senso lo darebbe l’immaginare una sorta di trilogia animalesca (sulla scia dei migliori appassionati di Argento) costituita sulle due precedenti opere dei Fratelli Marx, Monkey Business (1931) e Horse Feathers (1932), ma l’idea non lascia troppe soddisfazioni. Qualcuno azzarda che a livello figurativo la zuppa potrebbe richiamare un gran disordine, mentre il riferimento all’anatra sarebbe un gioco di parole con il verbo «to duck» ovvero “abbassarsi”, “schivare”. Altri indicano in Duck Soup un preciso riferimento allo slang americano dell’epoca, indicante qualcosa di semplice da fare. Eppure nulla nei Fratelli Marx è semplice, e quel disordine che viene messo in scena è l’impossibile. Non può essere schivato. D’altro canto, la spiegazione che ne diede Groucho si presenta ancora oggi come il proprio primo assalto, con le truppe di fanteria, al bersaglio della propria comicità: «Take two turkeys, one goose, four cabbages, but no duck, and mix them together. After one taste, you’ll duck soup for the rest of your life». Da questo punto di partenza indefinito e no sense è racchiuso il caosanarchico della comicità dei Marx, imprevedibile e apparentemente sragionevole ma lucidamente consapevole delle proprie intenzioni (e in questo si trova la sintesi del tipo d’azione anarchica) e che, da una guerra lampo, diviene la permanenza di un campo di battaglia, perpetuo e su tutti i fronti.
Per quanto alla sua uscita la critica si suddivideva freddamente e senza sbilanciarsi troppo se non in alcune note di demerito, e al botteghino (che non fu un vero e proprio flop come pensano e riportano in molti) si posizionava al sesto posto tra i film col maggiore incasso dell’anno (comunque non abbastanza per la Paramount), il vero motivo del fallimento era dato dal contesto storico nella quale il film si presentava, ovvero quello postumo alla Grande depressione finanziaria, lo stesso che formava un pubblico che non accettava categoricamente le dissacrazioni di cui la pellicola era radicalmente costituita, rimpiangendo la comicità che il gruppo aveva presentato negli anni precedenti, decisamente più spensierata. La guerra lampo, la zuppa d’anatra o in qualsiasi modo la vogliate chiamare, è corrosiva sì verso un epoca che stava per rigettarsi nella retorica di un secondo conflitto Mondiale, ma che nella sua lettura ed essenza antimilitarista ha attraversato le tappe della Storia presentandosi ancora oggi in vesti innegabilmente attuali. L’opera dei Marx non ha soltanto anticipato di poco più di un lustro Il Grande Dittatore di Chaplin, ma anche, e di ben più di un trentennio, Il dottor Stranamore di Kubrick, affermandosi a pieno titolo come gigante della commedia (squisitamente politica, come giusto che sia) all’interno della Settima Arte.
La messa in discussione dell’appariscenza dei leader politici nella figura di Rufus T. Firefly, rivestita e sconsacrata allo stesso tempo dai panni di Groucho Marx, dai suoi baffi e dalle sue sopracciglia dipinte, dalla fedeltà al sigaro, dal portamento cascante e dalle tempistiche ravvicinate delle battute che non danno respiro a uno spettatore che si ritrova travolto da una valanga di satira, senza poter prendere subito consapevolezza di quello che sta avvenendo, spaesati come la signora Teasdale (interpretata da Margaret Dumont) il cui ruolo indispensabile di chi cerca di riportare alla saggia ragionevolezza Firefly, subisce però soltanto un corteggiamento osannato ma confuso. La messa in discussione della stessa organizzazione dei Governi, nella scena della riunione di Gabinetto alla Camera dei Deputati di Freedonia, con un Firefly appoggiato alla sua destra da Bob Roland (interpretato da Zeppo Marx) fedele al senso del dovere tanto da prendere appunti sulle questioni più surreali (come quando viene presentato un rapporto dal Ministero del Tesoro con l’augurio che sia chiaro, a cui Groucho risponde «chiaro!? Anche un bambino di quattro anni potrebbe capirlo!», e poi, rivolgendosi a Zeppo, «va’ a trovare un bambino di quattro anni perché io non ci capisco niente») di fronte al gruppo di Ministri sbigottito dall’alto della propria funzione amministrativa, completamente inascoltata, depotenziata e infine decapitata («E ora membri del Gabinetto discuterei le vecchie faccende», «proporrei le tassazioni», «Si sieda! È una faccenda nuova. Niente cose vecchie? Molto bene allora discuteremo qualche nuova faccenda», «Bene, per le tassazioni…», «Troppo tardi! È già diventata vecchia»). La messa in discussione di ogni ambito del sistema giudiziario, come nel grottesco processo a Chicolini (interpretato da Chico Marx) che, rendendo un nano tutto l’apparato burocratico di kafkiana memoria, si prende gioco della Corte, di tutti i presenti, tra le alte caste di aristocratici, borghesi e militari, fino al canto e al ballo scanzonato dopo l’irreversibilità della dichiarazione di guerra all’ambasciatore Trentino (interpretato da Louis Calhern), del paese confinante di Sylvania. Ed è proprio qui che a essere messe in discussione sono la diplomazia governativa e l’attività militare, entrambi in sé, per quello che fanno, per quello che sono. A questo punto tutta l’accusa marxiana all’esistente e ai suoi apparati settorializzati dell’organizzazione della vita quotidiana, possono essere sbeffeggiati da una descrizione che Groucho rivolge a Chicolini (interpretante una spia dell’ambasciatore che cambia schieramento, un’infinità di volte, prima e durante la battaglia senza un apparente senso compiuto) e che lui ascolta inizialmente con profonda attenzione, incosciente dell’impatto delle parole: «Signori della Corte, può essere che Chicolini parli come un idiota, e abbia la faccia da idiota, ma non lasciatevi ingannare: è veramente idiota!».
Ma se è sulle parole che i Fratelli Marx hanno rivoluzionato il modo di intendere la comicità sugli schermi del cinematografo, l’astrattezza delle stesse è accompagnata dall’importante presenza del linguaggio del corpo, vivente il, e nel, momento, partecipe e attivo delle situazioni e i cui gesti, in grande parte, possono essere racchiusi nella figura di Pinky (interpretato da Harpo Marx), il quale, incapace di proferire parola e chiuso in un mutismo interrotto solo dall’uso comico di trombette, è interprete dell’esasperazione mimica di un tipo di cinema che, in quegli anni, si avviava verso la dissoluzione ma a cui i Fratelli Marx non hanno mai voluto rinunciare, e non per un senso d’appartenenza o per pura nostalgia a ciò che il cinema, la commedia, non sarebbero stati più; bensì per viverli con un nuovo senso rivitalizzante. Credo che la scena del triplice e caotico scambio dei cappelli tra Harpo, Chico e il vendicativo venditore di limonata, o la scena dello specchio tra Harpo e Groucho, rientrino a pieno titolo tra quelle il cui impatto ha rimesso in piedi una comicità che, dopo Chaplin e Keaton, sembrava non avere più punti d’appoggio. A oggi parla da sé ogni loro riutilizzazione in un numero infinito di altre proposte cinematografiche o televisive, come tributo; velato o meno, riuscito oppure no, non ha importanza. Lo stesso vale per la scena della battaglia, grottesca all’inverosimile, in cui Groucho appare con divise differenti a ogni cambio di inquadratura, dalle vesti popolari di Davy Crockett a quelle di Napoleone, e così via.
Per concludere non ci si può che appellare ancora una volta alla parlantina caotica ma tagliente di Groucho: «Faccia finta di niente, ma c’è un uomo in più in questa stanza e penso che sia lei!». Quell’entità in più è l’esistenza così come irrazionalmente organizzata e vissuta, e i Fratelli Marx, con le stesse armi irrazionali, la smontano bullone dopo bullone. Il Woody Allen di Hannah e le sue sorelle abbandona ogni intenzione e istinto suicida dopo aver rivisto la pellicola dei Marx, intuendo che valga ancora la pena vivere, ma gli stessi Fratelli Marx ci insegnano anche che dissacrare è il modo in cui si deve vivere una vita degna di essere vissuta. Per riutilizzare le parole del Robin Williams nei panni del dottor Hunter “Patch” Adams, di fronte a un paziente divertito per un film dei Fratelli Marx alla televisione, «you can never go wrong if you’re a Marxist».
[Immagine di copertina: Duck Soup,The Marx Brothers]