Ada brucia. Storia di un amore minuscolo, Anja Trevisan, effequ, 2020
Rino, un giovane uomo di 25 anni, sa di amare le bambine. Quando le vede, sente qualcosa che si attorciglia dentro e gli toglie il respiro. Torna a casa piangendo, si chiude in bagno, e si masturba, non riuscendo a fare altrimenti. La casa di Rino, che ha ereditato dal nonno come il mestiere di orologiaio, è fuori dal paese, nel bosco. È lì, tra le mura di legno e mattoni lontane dal centro abitato, che Rino vive la sua solitudine, s’interroga sull’amore che prova (“Rino non si raccapezza (…) L’età conta? Può esserci amore?”) e prende una decisione: sì, “l’amore è giusto, il nonno gliel’ha sempre detto (…) per questo non si è mai fatto una sega davanti a una scuola elementare anche se voleva (…) Fanculo, sono buono, si dice”. E così, durante la festa patronale del paese più vicino, Rino rapisce Beatrice, una bambina di 9 mesi. La porta nella sua casa nel bosco e la cresce come la sua compagna. La ribattezza: Ada. “Beatrice non esiste più (…) Quando non c’eri non avevo una vita. Quando non c’ero, neanche tu l’avevi”.
Con il suo romanzo d’esordio, Ada brucia, la giovanissima Anja Trevisan (1998) si confronta col tabù sociale della pedofilia e lo svincola, con estrema sensibilità e delicatezza, dalle rappresentazioni dominanti. Senza indulgere nella romanticizzazione dei sentimenti o, peggio, nel giustificazionismo, Trevisan riesce nel tentativo di superarle, andando al di là del binomio vittima-carnefice. Ada Brucia, “una favola oscura raccontata in piena luce”, mette alla prova il lettore, lo sfida: non c’è spazio per il piacere morboso, il gusto della lacrima, la commozione voyeuristica per il dolore altrui. Con un esordio che è un capolavoro, Trevisan contestualizza la pedofilia in un immaginario del tutto nuovo, eppure, forse, più realistico: perché i mostri non esistono, né gli orchi, i boschi sono bui solo di notte e i lupi non mangiano le bambine.
Rino non è un sadico e non vuole farle male. La vuole, però, sempre per sé, e se si chiede se Ada desideri altrettanto, lo fa solo per confermare se stesso e il proprio desiderio: “questo amore non è sbagliato ma vale quanto gli altri (…) o forse anche di più, perché è il suo. No, il loro. Di loro due”. Non concepisce che Ada abbia diritto alla libertà perché questa lo porterebbe via da lui. Per questo la convince che fuori si muore, la terra brucia, solo con Bapu – come lei lo chiama – Ada è al sicuro. Gli stivali proteggono Bapu ma le scarpe per bambine, lui le dice, non esistono.
Ada, per parte sua, priva di qualsiasi ricordo o esperienza di un mondo alternativo, non può che imparare tutto in funzione del piacere e appagamento di Bapu. Non ha nessun termine di paragone, nessuna nozione su cosa sia opportuno, lecito, cosa sia la libertà o la facoltà di scelta. Conosce solo l’amore di Bapu e la sua protezione.
Non cristallizzandola nel ruolo della vittima, Trevisan non la giudica. Perché anche le vittime, nel momento in cui le chiamiamo “vittime”, subiscono un giudizio: quello della lacrima morbosa, della pena che proviamo per loro. Non esprimendosi su di lei, sul suo destino, Trevisan riesce a costruire il suo personaggio osservandone l’evoluzione. Ada, investendo su Rino tutto il suo universo affettivo, cresce e cambia, e così il suo amore per lui e il suo desiderio. Per quanto Rino non la concepisca come un essere distinto da sé perché, senza di lei, non può vivere, Ada non esiste solo come oggetto del desiderio altrui, ma anche, e soprattutto, come soggetto e agente del desiderio stesso. “(…) Non ha voglia di sentirsi ignorata”, “vuole che Bapu la cerchi, la desideri, la trovi e la porti in braccio su per le scale”.
Trevisan non avrebbe realizzato il capolavoro che Ada brucia senza dubbio è, se non avesse rappresentato, oltre a questo, lo scarto di potere tra i due. Ada vive nella menzogna, cresce guardando il mondo dalla finestra, sogna di essere un bruco “perché i bruchi [sulla terra] non bruciano”. Come qualsiasi bambina che vive un abuso o violenza da parte di un adulto, “Ada si vergogna (…) quanto è stupida a credere a tutto quello che vede alla televisione [ha visto una pubblicità di scarpe per bambine e, entusiasta, ha riferito la cosa a Rino], deve smetterla di essere così, sennò Rino si arrabbia e ha anche ragione”. Indossa i vestiti smessi di Bapu (che non può rischiare di acquistare vestiti per bambine in paese e destare sospetti), avvolge il ventre in un asciugamano quando ha le mestruazioni e si sente rifiutata (“«Oggi perdo sangue». (…) [Rino] fa una smorfia di disgusto, scuote la testa”). Ada non sa scrivere, non sa leggere, e certo non ne sente il bisogno, perché non lo ha mai fatto. Ma quando trova un biglietto diretto a lei, solo a lei, sente che leggere le darebbe accesso all’indipendenza da Bapu, ad una qualche libertà; non riesce a dare un nome a quello che prova, ma ne sente la mancanza. “(…) Quel foglio: è come se lo sentisse vibrare”, “bruciare, chiamarla per farsi leggere”, “[sono] le parole di un estraneo per lei”, “una cosa solo sua di cui Bapu non saprebbe niente”.
Con una prosa luminosa – scarna e semplice e al contempo lirica, intima, all’altezza di un realismo puro e insieme evocativo –, Trevisan non solo entra nelle maglie del sentimento senza bisogno di psicologismi, astrazioni, elucubrazioni filosofiche sul senso dell’amore. Riesce anche a descrivere tutto, non tralasciare nulla, portare il lettore dove non vorrebbe arrivare perché la luce si fa forte, fortissima, abbaglia – si possono solo chiudere gli occhi per non sentire male.
Il desiderio di Rino, infatti, si fa sempre più esigente. Dal voyeurismo e onanismo nascosto, passa a quello esplicito, nel letto con Ada accanto a lui, e arriva, quando la bambina ha ancora 11 anni, alla pretesa di rapporti sessuali completi. Trevisan non fa alcuna concessione all’immaginario pornografico o a descrizioni morbose e compiaciute del trauma di Ada. Eppure, descrivendo l’atto per quello che è e le intenzioni dei personaggi per come questi li provano, la gravità emerge nuda nella sua più violenta crudezza: è uno schiaffo che continua a bruciare sotto la luce accecante della scena. Ada, che non capisce cosa sia questo “amore” che ogni tanto fanno, sente male, gli chiede di smettere, non gli piace la faccia che Bapu fa quando succede, ma lui rifiuta, devono continuare, “«Perché?» [chiede lei] (…) Perché lui vuole. E le prime volte è normale che non vada bene, prima o poi le piacerà, ormai è grande”.
È grazie all’ampliamento del tempo della storia (che non si ferma al rapimento e alla reclusione ma continua nella scoperta della libertà quando Ada, a 13 anni, viene liberata) che Trevisan ha modo di far evolvere non solo i personaggi, dando loro ulteriore corpo e profondità, ma anche i temi centrali del libro: l’amore e la dipendenza, il piacere e desiderio, la solitudine e il dolore. Pur mantenendo un’osservazione costante di entrambe le figure principali, la prospettiva dominante, nella seconda parte, si sposta da quella di Rino a quella di Ada. Nel farlo, Trevisan non cade nel tranello di fornire una doppia versione della storia; approfondisce, semmai, il trauma di Ada – non quello vissuto con Rino, che Ada non chiamerebbe mai tale, ma quello della “libertà”, del mondo fuori, in cui l’amore di Bapu, le viene detto, si chiama “violenza” e quello che facevano “stupro”.
Si assiste, così, ad un’interessante metamorfosi del desiderio; quest’ultimo, infatti, da Rino passa ad Ada, ma in una forma del tutto nuova rispetto alla “bolla” nella quale ha vissuto i primi anni di età. Si potrebbe dire, in un certo senso, che Ada combatta, si scontri, non accetti le regole che le vengono imposte. Non solo da Rino, il cui desiderio per il suo corpo sfuma (quando svincolato dalla giovane età e dal contesto di reclusione che li ha visti insieme) ma anche dal mondo, che le dice come deve sentirsi. E nel seguire questa metamorfosi, Trevisan, con estrema maestria, ribadisce ulteriormente e al contempo smussa i punti di incontro e di divergenza tra i due protagonisti. Se da una parte, infatti, la co-dipendenza li lega ad accumuna, il desiderio di Ada non è il naturale specchio della voracità di Rino. È un desiderio a sé, solo suo, che Trevisan tratteggia con fine empatia. È nella sfaccettatura del personaggio di Ada, forse, che Trevisan fa un salto rispetto alla tradizione. La complessa dignità della bambina (poi ragazza) non ha niente a che fare con la Dolores Haze di Vlamidir Nabokov: la “ninfetta”, “l’isola incantata”, la cui natura “non è umana, ma di ninfa”, ed è quindi specchio ed emblema del desiderio adulto e maschile.
Con Ada Brucia, Trevisan è riuscita a osservare una storia e i suoi personaggi dimenticando se stessa. Ada e Rino sembra che le siano apparsi: lei li ha visti, osservati e, senza pretendere di entrare nella vicenda e conferirle senso, li ha resi al lettore nelle loro complessità, contraddizioni; nel loro mistero, che è quello della natura umana e del sentimento. Trevisan non li ha giudicati ma noi lettori, leggendo la loro storia, possiamo farlo: i personaggi che l’autrice ha creato vivono fuori da lei, fuori da noi, e per questo li possiamo studiare, cercare di comprendere; amare e odiare, anche quando, a capirli, non ci siamo riusciti. A libro completato, si ha la sensazione che Ada e Rino vivano ancora, da qualche parte lassù, o quaggiù. Ovunque si trovino, serbano il loro segreto.
Col suo primo romanzo, Trevisan è riuscita nel miracolo della grande letteratura: dare vita a personaggi che non sono diventati eterni grazie a chi ha raccontato la loro storia. Eterni, lo sono sempre stati.
[Immagine di copertina: Little girl on the road, Sylvia Baldeva]