Luce d’estate ed è subito notte, Jón Kalman Stefánsson, Iperborea, 2013
I buoni propositi sono fatti per essere disattesi. Ad esempio, per il 2021 mi ero ripromessa di leggere solo libri scritti da donne ma poi mi sono imbattuta in Luce d’estate ed è subito notte dell’islandese Jón Kalman Stefánsson, e posso dire che non leggerlo è Peccato. L’ho finito con la stessa soddisfazione di chi infrange una dieta mangiando una fetta di Foresta Nera in uno sciccoso bar del centro, seduta su un divanetto di velluto rosso e con un cameriere in livrea che ti porta il caffè.
Luce d’estate ed è subito notte è il racconto corale delle vite, degli amori e delle sofferenze di alcuni abitanti di una cittadina di quattrocento anime, sperduta nella campagna islandese. In questa minuscola realtà si susseguono tutte le vicissitudini che possono colpire un essere umano, e queste vengono vissute in maniera ancora più intensa proprio perché le dimensioni del paesino non lasciano via di scampo: i suoi abitanti sono lontani da distrazioni e sovrastrutture e devono fare i conti con se stessi e con gli avvenimenti che la vita impone loro. Non escludo che questa lettura del libro sia falsata dal fatto che io stessa ho vissuto i primi diciott’anni della mia vita in una piccola città di periferia (anche se eravamo più di quattrocento persone), ma è certo che una delle cose che più mi ha colpito di questo romanzo è proprio il modo in cui l’autore descrive, con tratti poetici e a tratti epici, la sensazione di ineluttabilità degli eventi che colpiscono i suoi abitanti.
La verità, infatti, è che se vivi in una piccola città non ti puoi nascondere. Ogni bugia viene smascherata e ogni persona è definita dalle azioni delle generazioni che lo hanno preceduto. Se vivi in una piccola città non hai scampo: sei costretto a vivere una vita sotto i riflettori, lontano da ogni anonimato dove tutti ti conoscono anche se con la metà di loro non ti sei mai presentato. Se vivi in una piccola città ti abitui ai gesti di gentilezza gratuiti, e anche a quelli di cattiveria immotivati. Se vivi in una piccola città, è la piccola città che sceglie per te: non hai librerie, teatri, sale da cinema che ti propongono tutta una serie di pazze distrazioni. Puoi decidere di andare a teatro ma non quale spettacolo vedere, perché di spettacolo ce n’è solo uno (se sei fortunato: da me di teatri non ce n’erano). Se vivi in una piccola città e poi te ne vai, all’inizio sei ubriaco di libertà: nessuno sa chi sei, da dove vieni, chi sono i tuoi genitori e per la prima volta senti di poter esplorare tutte le infinite possibilità di essere te stesso, ma quella piccola città ti resterà inevitabilmente addosso, e la odierai e la amerai per sempre. Ti mancherà non incontrare per caso la tua compagna di classe delle medie con la quale non parli da vent’anni. Ti mancherà il pub dove l’amico dell’oratorio ti faceva lo sconto sulla birra, e ti mancherà anche dover evitare quella pizzeria perché è dei genitori dell’ex della tua migliore amica.
Le piccole città, come quella descritta da Jón Kalman Stefánsson, sono degli ecosistemi a se stanti, con un proprio equilibrio e una propria logica. Chi le guarda da fuori spesso le snobba, non capendo che queste traboccano di un’energia primordiale che le grandi metropoli non avranno mai. Le vite che l’autore descrive hanno il sapore dell’assoluto e dell’universale perché, anche se scorrono vicino a uno sperduto fiordo islandese, mostrano senza filtri quelle emozioni che sono proprie di tutti gli esseri umani e alle quali nessuno può scappare.
[Immagine di copertina: Helgafell, ovvero una delle 758 foto scattate dall’autrice durante il suo viaggio in Islanda nel 2013]