Tehran Girl, Mahsa Mohebali, Bompiani 2020, traduzione dal persiano di Giacomo Longhi
È difficile raccontare l’Iran senza indulgere nell’occidentalismo della “sorpresa”, della “scoperta”, delle “piacevoli rilevazioni” “al di là degli stereotipi”. “Non volevo smontare stereotipi”, risponde Mahsa Mohebali, autrice di Teheran girl (Bompiani 2020), intervistata da La Stampa. “Eppure non c’è riga del tuo romanzo che non stupisca”, commenta la giornalista. “C’è un Iran dove siamo libere”, risponde l’autrice. Ma le avrà pronunciate davvero, Mohebali, queste parole?
Non è facile perché non si tratta di stereotipi, nella maggior parte dei casi, ma di certezze assolute che non trovano alcuna corrispondenza nella società iraniana. L’orientalismo che ci abita, quando si parla di Iran, non si traduce tanto in opinioni precostituite e generalizzate, quanto in convinzioni false; idee errate, che non riguardano solo la condizione femminile ma anche quella maschile, familiare, comunitaria e, più in generale, la “libertà”, lo spazio individuale, il senso di sé e dei propri diritti – civili, umani, di genere.
Se l’Iran lo si conosce poco, Teheran girl non è un romanzo in cui cercare una rappresentazione adeguata della realtà iraniana. Non lo è perché lascerà confusi e assediati dagli interrogativi. La protagonista, Elham, ci prenderà con irruenza, ci spintonerà, si irriterà delle nostre esitazioni e ci trascinerà tra le strade di Teheran, quelle vere, non quelle esotiche piene di spezie e uomini barbuti con le quali ci rassicuriamo nella nostra distanza. Non lo è perché non potrebbe esserci un ritratto più autentico di quella che è la gioventù di Teheran e una testimonianza più sincera di quello che è il suo rapporto con la generazione che li precede – quella della Rivoluzione Islamica del 1979. Teheran girl lo si finirà e si cercherà altro, per capirci di più. Se l’Iran lo si deve scoprire, Teheran girl è il regalo più grande che ci si possa fare.
La vita di Elham viene interrotta da un’improvvisa rivelazione: il padre, che lei credeva morto, è vivo e abita in Svezia. Elham non sa perché, non sa perché sia scomparso e non sa perché non sia morto. Elham, da bambina, è cresciuta in un “covo di comunisti”, oppositori della Rivoluzione. Quando i Pasdaran (i “Guardiani della Rivoluzione”) hanno trovato delle foto nel suo quaderno di scuola, Elham ha riconosciuto chi riconosceva, perché Elham, della Rivoluzione, non sapeva niente. Elham vuole delle risposte, ma sua madre è un’oppiomane che non gliele dà, suo fratello è un fannullone che non le capisce.
Elham, allora, sale sulla sua Peugeot, impreca nel traffico, corre sul tapis-roulant; fuma sigarette, litiga con le amiche, ritorna al passato e al suo senso di colpa. Nello sgomento, si domanda cosa sia successo, perché la Rivoluzione, perché suo padre, perché lei. Torna indietro e corre in avanti, in direzione della verità.
La bellissima traduzione di Giacomo Longhi rende giustizia ad una prosa vivace e brillante. Attraverso la seconda persona e a un’originale costruzione della frase, lo sguardo del lettore si centra intorno a quello di Elham: vediamo coi suoi occhi, pensiamo con la sua mente, entriamo nelle maglie del suo sentimento e lo proviamo con lei. L’uso del “tu”, infatti, declina i pensieri della protagonista, impersona la sua immaginazione, riavvolge i continui balzi temporali: è una prima persona che pensa in seconda, è una seconda persona che diventa prima. Gli oggetti intorno ad Elham, inoltre, diventano soggetti: “le lancette dell’orologio ti si impigliano agli occhi”, “il parafango urta la scarpa”, “l’antifurto torna a strillare”, “una fitta ti attraversa il piede”. Elham vive il mondo, e tutto prende vita.
“Il tapis-roulant si riavvolge da una parte, tu devi correre dall’altra. E se ti fermassi? Se smettessi di affannarti come una pazza? Cosa accadrebbe? Il nastro gira, scorre all’indietro (…) Se i tuoi passi non procedono nel senso opposto vieni sbalzata fuori. Fuori da cosa?”
[Immagine di copertina: Ebrahim Noroozi, Associated Press]