Enne, Valentina Durante, Voland, 2020
Mi viene difficile scrivere di Enne, in quanto ho la sensazione che usare altre parole, rispetto a quelle scelte da Valentina Durante per raccontare questa storia, rasenti il sacrilegio. Immagino di sentirmi così perché leggendo questo romanzo epistolare mi sono imbattuta in un linguaggio essenziale e come distillato, in cui ogni singolo vocabolo dà l’impressione di essere stato selezionato attentamente in quanto indispensabile. La scrittura di Valentina Durante è pulita e ordinata, di una precisione chirurgica, in linea con la quotidianità ossessiva di cui è prigioniero il suo protagonista. Di lui apprendiamo subito che ha iniziato a vivere così da che un evento traumatico ha sconvolto la sua vita, poco importa che si tratti di un trauma esterno o avvenuto nella sua vita interiore. La prima ipotesi è quella suggerita dal narratore, il protagonista stesso, ma leggendo si diventa presto consapevoli che non ce ne dobbiamo fidare troppo. Tuttavia i sospetti che sorgono man mano in chi legge non verranno mai confermati, se non in una minima parte. Non è nelle intenzioni dell’autrice una narrazione dettagliata dei fatti, né una loro successione lineare, come appare evidente da un passaggio che mette in bocca a un personaggio secondario, ma significativo: “In che direzione va realmente il tempo? […] Dove sono le cause e dove sono gli effetti? Siamo noi che adattiamo i nostri comportamenti ai fatti che ci sono accaduti, oppure all’inverso fabbrichiamo questi fatti per giustificare i nostri comportamenti?”. Quella in cui ci si ritrova immersi è un’atmosfera ovattata, la cui pace apparente viene via via sempre più incrinata da echi di violenza, morte e disperazione. Ogni apparente digressione va in realtà ad arricchire lo stesso quadro, mostra un nuovo punto di vista sulla medesima storia. Il dramma del protagonista trapela solo in quanto suggerito, ma è proprio la mancanza di dettagli e di chiarezza a far sì che il lettore ne venga colpito in modo violento, quando meno se l’aspetta, forse perché in questo modo può riempire i vuoti della narrazione con le mostruosità della propria coscienza. O almeno con me è andata così.
[Immagine di copertina: foto tratta da vidra.com]