Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa, Francesca Mattei, Pidgin edizioni, 2021
Una volta un amico mi ha detto che secondo lui, ma anche secondo la scienza, di una raccolta di racconti, per apprezzarla al meglio, si dovrebbero leggere solo uno o due racconti alla volta. Questo per permettere a certe aree del cervello di avere il tempo necessario di assimilare quanto appena letto, coglierne l’essenza, e discernere tra i singoli racconti.
Ho subito ripensato a quando da piccolo accompagnavo mio padre a giocare la schedina e, per un tacito accordo, mi spettava di diritto un pacchetto di Fruit Joy, che divoravo una caramella dopo l’altra senza stare troppo a pensarci.
«Così neanche te le gusti» mi rimproverava mio padre osservando come la mia piccola mascella cercava di masticare tutto quel glucosio colorato.
«Ma babbo» rispondevo sempre. «Sono troppo buone».
Ecco: i diciassette racconti de Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa, di Francesca Mattei, me li sono divorati proprio come da bambino divoravo le Fruit Joy e, se dovessi giustificare tale ingordigia, direi semplicemente: «Erano troppo buoni».
Un esordio nel mondo delle lettere con una raccolta di racconti è una specie di cometa di Halley, un evento che crea entusiasmi e speranze, ma Francesca Mattei, con Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa, non delude né gli uni né le altre. Autrice proveniente dal mondo delle riviste letterarie (alcuni dei racconti della raccolta sono già apparsi in riviste come La Nuova verde, Malgrado le mosche, Clean…), mostra, nella forma “racconto”, una predisposizione spontanea, come se non sapesse cosa farsene di parole in più, esattamente come alcune protagoniste dei suoi racconti non sanno cosa farsene delle loro vite, delle serate con gli amici, della propria pelle.
Se c’è una cosa che ho apprezzato più di tutte della scrittura di Francesca Mattei è la ricerca di un minimalismo verbale che, senza pretese, grazie alla sua semplicità, riesce a raggiungere una poeticità che ricorda grandi autori, a volte violenta, ma sempre spontanea. Le sue parole sono come ossa, di forma e sostanza simili a milioni di altre ossa, ma che Mattei monta secondo un suo preciso desiderio interno e restituisce verbi, avverbi, sostantivi, di uso comune, a vita nuova, ad altrettante nuove narrazioni, dove anche una semplice domanda riesce a rispondere a quello che è impossibile da dire in paragrafi interi: “…, B. mi chiede «Dove vai?» ma è soltanto una voce che arriva troppo tardi,…»
Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa è il primo titolo italiano pubblicato dalla casa editrice Pidgin. Da segnalare la bellissima copertina del libro che, almeno a me, rimanda subito a una pellicola di Lucio Fulci, e non è poco. Chiusa parentesi grafica, i diciassette racconti della raccolta sono dei veri e propri tagli, in cui anche una ricerca nevrotica degli ultimi rimasugli di vodka può lacerare la routine di una vita come tante in un paesino di provincia, dove la provincia non è un luogo ma una fede. Sono tagli perché hanno la violenza delle epifanie, come quelle che si presentano ai personaggi dei racconti, messi di fronte a scelte che, prese o no, fanno comunque male. Sono tagli perché il taglio, lo insegna anche Fontana, con poco, può essere concettuale, e in casi così, in casi come Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa, vale la pena ricordare la famosa frase del buon Mies van der Rohe: Less is more.
E questo è il taglio della raccolta di racconti di Francesca Mattei.
[Immagine di copertina: Contadino che brucia sterpi, Van Gogh, 1883]