Sangue di Giuda, Graziano Gala, minimum fax, 2021
Mi hanno sempre insegnato che l’italiano standard è quello derivato dal toscano e ovviamente questa è un’asserzione risorgimentale e accademica molto discutibile, ma pensare al coraggio che uno scrittore deve avere per narrare in dialetto mi fa quasi tremare, soprattutto se questo dialetto è un costrutto linguistico generato dall’incrocio tra pugliese e campano, ma forse quasi più una sintesi folle del parlato meridionale nella tragica bocca di un povero Giuda.
Sangue di Giuda (minimum fax, 2021) ha questa bellezza estraniante che sgorga fuori da uno sdoppiamento difficile da spiegare, perché da una parte c’è la trama che si sviluppa con una sua logica, ma dall’altra c’è il linguaggio che a sua volta si trasforma in un racconto e che forse è la parte più toccante e divertente del libro di Graziano Gala.
Se guardiamo alla trama vedremo la storia di un derelitto, un umiliato e offeso la cui sfortunata spirale inizia da piccolo, quando il rapporto col padre tracolla a causa di un’azione non eseguita dal protagonista. Da lì addirittura questo povero Cristo perde il nome diventando un Giuda. Chiaramente il disastro esistenziale non finisce lì e la società intera trasformerà la sua vita in una miseria, che ruoterà attorno a un televisore come solo le vite dei poveracci ormai impazziti possono ruotare.
È dunque coerente con la sua condizione la lingua che questo disgraziato usa, tuttavia, se la osserviamo come fenomeno a sé, diventa immediatamente capace di generare un altro livello narrativo, una storia dentro la storia capace di esplodere come una bomba a mano tra un rigo e l’altro, talvolta disorientando, altre volte creando salti vertiginosi tra la pura creatività e la disperazione, in un balletto ritmato splendidamente tra il tragico e il comico in un modo tale che l’italiano standard non riuscirà mai a fare.
Vi è dunque la potenza della libertà linguistica all’apice dello sconvolgimento che Sangue di Giuda è capace di generare nel lettore, uno sconvolgimento che produce un riordino delle priorità, dato che sposta l’aggressione alle forme standardizzate di narrazioni non tanto sul piano strutturale, ma su quello linguistico con una tale potenza da far tremare le mani. Ma a tanta violenza corrisponde una pari quantità di umanità che mi fa immaginare Graziano Gala come una specie di miniatore incandescente e posseduto da demoni incontrollati, piuttosto che come un iconoclasta senza scrupoli. Ecco sì, in lui la trama è un ornamento, perché è la lingua e la sua invenzione il cardine su cui fa scricchiolare la realtà.