Racconto in due puntate – II
Da una finestrella della chiesa
Suono o non suono le campane? Cosa direbbero in paese se le 17 di questo giorno infausto non venissero accompagnate dal suono del bronzo? Avessero concordato un’ora per attraversare la piazza non sarebbero riusciti nemmeno ad avvicinarsi alla precisione di questo momento. Le 17 in punto e quei tre, Yuri e i due carabinieri, per una coincidenza beffarda transitano davanti alla chiesa, la mia chiesa, proprio mentre la città dovrebbe essere invasa dal rintocco esatto dell’ora. Le 17, esattamente ora. Potrei sottolineare questo momento con un silenzio tagliente, così che tutti capiscano la mia posizione, immutata dal primo giorno in cui è arrivato in città ignorando il luogo sacro che quarant’anni fa ho ricevuto in dono e che da altrettanto tempo cura le anime di questo paese. Parlano tutti di pietà e non sanno quanta ne ho distribuita, all’inizio, quando ero solo un giovane appena uscito dal seminario con addosso ancora l’odore delle antiche carte. Vogliono la pietà, la redenzione, parlare con me per parlare con Dio ma non capiscono che sono solo un umile sherpa che può, al massimo, indicar loro la via e farsi carico dei bagagli più pesanti. E cosa farebbero poi una volta giunti al cospetto dell’Altissimo? Balbetterebbero qualche domanda sulle continue sofferenze quotidiane e sul modo migliore per essere felici, mentre io, nei momenti sempre più rari in cui la fede vacilla e riesco ad avere udienza, non faccio altro che chiedergli che senso ha pregare, convincere gli altri di una fede che non possono toccare. “Bisogna credere” pensate che sia sufficiente? C’è un posto nascosto nel mio cuore avvizzito in cui la risposta a questa domanda è sempre sì ma sono ormai troppo vecchio per ricordare dov’è. Eppure è questa la risposta che tutti vogliono, il resto sono orpelli, parole della Bibbia, di cui preferisco l’Antico Testamento, scritte per gli uomini e le donne di tremila anni fa e che adatto costantemente al nostro tempo e al nostro minuscolo paese. Un versetto per ogni funerale, ogni battesimo, ogni matrimonio, eppure niente smuove i cuori dei fedeli come la ripetizione del credo, la promessa del disvelamento attraverso l’accettazione, l’arma che sconfigge la morte chiedendo in cambio un unico sacrificio: credere incondizionatamente a una promessa che ha attraversato i secoli mantenendo pressoché intatto il suo potere di persuasione. Yuri, il Toro, di quella promessa non ha mai saputo cosa farsene. Ha sempre preferito la notte alla mattina, le orge alla preghiera, e allora che le campane tacciano, ora che giustizia è fatta!
Da una camera chiusa a chiave
Non possono fargli questo! Non ne hanno il diritto, nessuno ne ha il diritto! Se solo avessero provato a capirlo…ma i loro cuori aridi conoscono solo ciò che transita dalle mani, indurite dal tempo e dal lavoro. Dicono di credere, entrano in quella discarica di vizi che chiamano chiesa trascinandosi dietro sacchi neri stracolmi di maldicenze e pregiudizi. I loro cuori sono schiavi, costretti a pompare sangue in un organismo in decomposizione; cercano Dio nell’ultimo posto dove sceglierebbe di passare la domenica e lo sconfessano in tutti gli altri. Se solo avessero visto…La gioia abbacinante erompere da un corpo di marmo per riempire una stanza di luce, la preghiera di un uomo umile che si unisce a quella di altre persone per diventare onda di un oceano in tempesta, il grido tagliato di netto della caduta che si trasforma in ascensione. Nessuna droga sarà mai capace di richiamare quelle sensazioni, soprattutto la prima, magnifica, distruzione del mio corpo terreno avvenuta per un caso che oggi non ho problemi a chiamare destino, kairos, perché non sopporto di delegare a qualcun altro il merito di essere entrata nella capanna di legno proprio mentre lui stava dispiegando le ali, così ampie e così diverse dal corpo rude dal quale spuntavano. Sulle prime non mi aveva sentito entrare e ricordo che si era molto spaventato quando avevo svelato la mia presenza facendo cadere dei ciocchi di legna: in un battito di ciglia aveva ritratto le ali ed era corso a nascondersi nella casa passando per la porta interna che dà sulla sala da pranzo. Io non potevo fuggire, avevo visto, ero testimone di un miracolo e così attesi, al centro del laboratorio di Remo, per ore, senza che niente accadesse se non l’affievolirsi della luce solare. E proprio quando sul paese erano calate le tenebre avevo sentito dei passi sopra di me, poi alla mia sinistra e poi sempre più vicini fin quando non ero riuscita a scorgere lo sguardo intimorito di Yuri, con la stanza che riempiva dei battiti del suo cuore. Da quel giorno, quando Remo era fuori per riparare i suoi mobili scadenti, cosa che accadeva sempre più spesso, entravo nella capanna al tramonto, mi piazzavo al centro e aspettavo che Yuri mi raggiungesse per pregare in silenzio. Smisi di drogarmi dopo due settimane dal nostro primo incontro, non ne avevo più bisogno, e anche se il mio stomaco si contorceva in spasmi di astinenza, quando prendevo posto al centro della capanna li sentivo scivolare fuori, lontano dal mio corpo. Le persone con cui avevo iniziato a farmi e che chiamavo amici, avendo visto quelli veri fuggire uno a uno dal paese al seguito delle rispettive famiglie, dopo avermi trascinato nel loro magic bus delirante ci misero poco a emarginarmi, ma ero comunque riuscita a convincere una di loro, Miriam, a seguirmi, cautamente, nella capanna. Sapevo che, se solo avessero provato quel calore, non avrebbero più cercato di evadere dalla realtà scavandosi tunnel nel cervello con cucchiaini e accendini. Con Miriam funzionò e sono certa che sarei riuscita a convincere anche gli altri se mio padre non mi avesse chiuso in casa, dopo aver scoperto le siringhe, vecchie ormai di settimane e, soprattutto, se Yuri non fosse stato arrestato. Nessuno in paese ha mosso un dito per lui, nemmeno Remo. Non sanno cosa stanno perdendo; avevano l’occasione di salvarsi e hanno deciso di non vedere.
Al tavolo di un bar, un anno dopo.
La persona che ho davanti si chiama Giovanni Corrieri, dice di essere un giornalista. Qualcuno, non ho visto chi, deve avergli indicato il mio corpo stanco e sudato. Dopo essersi presentato mi offre una birra che accetto, senza farmi domande, tanto qui la birra è sempre la stessa. Sorride mentre la schiuma si impasta ai suoi baffi, tira fuori un registratore e gli dico che no, qualunque cosa voglia non ho niente da dire, soprattutto a quell’apparecchio. Allora rinfodera la piccola scatola nera ed estrae dalla tasca un taccuino, ma nonostante sia il gesto automatico di un professionista intenzionato a riportare le mie parole nel miglior modo possibile, gli consiglio nel modo più gentile possibile di riporlo. Un po’ dispiaciuto, ma per niente scoraggiato, dopo aver bevuto in un solo sorso più di metà boccale incrocia le braccia sul tavolo e mi dice che sono l’unico in grado di risolvere un mistero che lo ossessiona da un anno. Racconta di non aver mai saputo dell’esistenza del paese, nonostante vi passasse davanti almeno sei volte al mese da quando aveva conosciuto Rebecca. Dice che nei treni non può fare a meno di dormire e che il suo organismo è un orologio svizzero: un quarto d’ora dopo la partenza i suoi occhi si chiudono e a dieci minuti dall’arrivo si riaprono; è addirittura in grado di mostrare il biglietto al controllore senza perdere il filo del sogno. Ma quel giorno, il giorno di cui mi voleva parlare, più che in un vagone si era sentito in trincea sotto i bombardamenti. Nemmeno io riesco a dormire mentre c’è la guerra, mi dice, soprattutto se a combatterla sono i bambini; e non riesco nemmeno a leggere se sono distratto costantemente da urla e calci sullo schienale, ma penso che nessuno ci riesca. Come se la situazione non fosse stata abbastanza claustrofobica, il treno stava attraversando un lungo valico e il panorama si riduceva a una striscia di nero uniforme da entrambi i lati; anche il cellulare era inservibile, era come viaggiare dentro il Triangolo delle Bermude ma senza poter vedere l’oceano e con la peggior compagnia possibile. Non può capire il sollievo quando il chiarore del giorno cominciò a rubare spazio all’oscurità, fino a diventare una bomba di luce improvvisa e, subito dopo, lo stupore nel vedere il treno frenare in prossimità di una minuscola stazione, la stessa dove sono sceso quest’oggi. Mi scusi se mi sto dilungando, arrivo subito al punto.
Il giornalista, scambiando un mio sospiro per un moto di insofferenza, si libera dall’espressione divertita che ha usato fino a quel momento e la sostituisce con una mutria capace di invecchiarlo all’istante. Racconta che, osservando il paesaggio durante la sosta, aveva notato una persona, molto probabilmente scesa dal treno, fuggire tra i campi inseguito da due figuri vestiti di nero. Lo descrive come un ragazzotto alto, ben piazzato, con la testa rasata o quasi, che indossava una tuta da lavoro blu, o almeno a quanto riusciva a vedere. Non so spiegare perché, prosegue, ma da quel giorno dormire in treno mi risulta impossibile, così ho cominciato a scattare foto del paesaggio, dei miei compagni di carrozza e delle persone in attesa dell’arrivo del treno, ma in nessuno dei 23 rullini sviluppati ho ritrovato l’uomo che vidi fuggire quel giorno. Ecco perché oggi mi trovo qui, dice adeguando il tono al finale della storia, perché ho deciso di interrompere il mio viaggio a questa stazione: per capire cosa mi ha cambiato, cosa mi ha tolto il sonno. Con un ultimo sorso finisce la birra, mi guarda, so dove vuole arrivare. Ho chiesto a tutte le persone che ho incontrato, dalla stazione alla piazza, se avessero mai incrociato un uomo che corrispondesse alla descrizione del fuggitivo e ogni volta ho visto il loro volto illuminarsi o farsi improvvisamente torvo, e quando ho chiesto di raccontarmi qualcosa di più tutti, nessuno escluso, mi hanno fatto il suo nome. Lei è Remo, giusto?
Così come lei è chi dice di essere, controbatto abbozzando un sorriso, ma la prego di arrivare al dunque perché la birra è quasi finita e non ho intenzione di ordinarne un’altra prima di rimettermi a lavoro. Il giornalista, strappando pagine di convenevoli, si sporge verso di me appoggiano i gomiti sul tavolo e libera l’unica domanda di cui gli interessi ascoltare la risposta: chi era quell’uomo che ho visto dal treno? Il locale è deserto, anche il barista si è concesso una sigaretta davanti alla finestra da cui intravedo la facciata della chiesa. Vedo il fumo salire dalle sue labbra mentre osserva il paese da sempre congelato nell’unico attimo che ha sempre vissuto. Mi volto verso il giornalista, sembra tremare, o forse sono io che mi sto stancando prima del dovuto; butto giù l’ultimo sorso di birra, sbatto il bicchiere vuoto sulle assi di legno e comincio la mia parte della storia. Le dirò chi era quel ragazzo, ma dovrà promettermi che non una parola verrà trascritta; potrà tramandare questa storia solo raccontandola, come mi accingo a fare, ma se una sola sillaba sfuggirà alla promessa niente e nessuno potrà ridarle la vita che ha vissuto fino a quel momento e niente e nessuno la salverà dal baratro che quella sillaba aprirà sotto i suoi piedi.
Yuri Guvidan, questo è il nome che sta cercando, arrivò in paese un anno, tre mesi e 14 giorni fa. Prima di stabilirsi nella mia casa bussò a molte porte, ognuna delle quali gli si richiuse davanti con una scusa sempre diversa. Quando lo accolsi era in ipotermia, non mangiava da giorni e aveva passato almeno una settimana all’addiaccio. Comunicare con lui era quasi impossibile, non conosceva una parola della nostra lingua, ma nell’arco di qualche giorno riuscì a imparare lo stretto necessario per sopravvivere, risultando tavolta simpatico per la sua ingenuità. Lavorava senza mai stancarsi, era incredibile, se non gli avessi detto che era ora di mangiare non avrebbe mai smesso di raccogliere e spaccare legna. Visto che ogni nuova parola, per lui, rappresentava una conquista non gli chiesi mai di raccontarmi da dove venisse e cosa lo avesse spinto fino al nostro piccolo borgo incastrato tra le colline: non mi interessava e non avrebbe cambiato niente della persona che mi trovavo davanti. Ma se la mia curiosità era sopita e in pace con se stessa, e lo sarebbe stata per sempre, mano a mano che condividevo le giornate con lui sentivo di essere entrato in contatto con una storia straordinaria che attendeva solo il momento giusto per venire alla luce. E fu proprio un’esplosione di luce a sommergermi la sera che rientrai a casa prima del solito e, come sempre, passai a lasciare gli attrezzi nel capanno. Improvvisamente accecato, avanzai tenendo una mano davanti agli occhi e l’altra protesa in avanti; dopo pochi passi le dita incrociarono qualcosa di morbido e vivo che reagì al contatto ritraendosi immediatamente, in un frusciare convulso. Riacquistata la vista mi trovai di fronte Yuri: portava un’espressione molto diversa rispetto all’abituale dolce rassegnazione, sembrava preoccupato o, addirittura, terrorizzato. Lo rassicurai subito che non mi importava cosa fosse successo e che non ne avrei fatto parola con nessuno. Ora immagino che lei non si ricordi gli uomini vestiti di nero che ha visto dalla carrozza, ma sono certo che fossero gli stessi che due mesi fa si sono presentati in paese vestiti da Carabinieri per catturare Yuri. Li ha mancati di poco, con il suo rullino avrebbe potuto scattare sicuramente delle buone foto e oggi non mi ritroverei qui a ricostruire il volto di quel ragazzo solo attraverso ricordi che lentamente sbiadiscono. La mascella del giornalista tocca quasi il tavolo, non sa da quale domanda partire, poi sceglie la più ovvia: perché non ha impedito che lo prendessero? Fu lui a pregarmi di non intervenire: «Se non troveranno me se la rifaranno con voi e del paese non resterà niente», mi disse pronunciando perfettamente ogni parola. Fu la frase più lunga che gli sentii rivolgermi; purtroppo, fu anche l’ultima…
A questo punto la mia versione della storia si bagna di lacrime. Forse non ho capito niente di ciò che è successo e le mie sono solo farneticazioni di un uomo che ha passato la vita a riempire le case dei suoi compaesani di mobili, sedie e tavoli. Ma se anche voi, come me, siete convinti che la vera storia di Yuri vada oltre la nostra comprensione, raccontatela così come l’ho raccontata io. Starà poi al vostro pubblico decidere se Yuri sia un impostore, un ladro, un assassino oppure il sonno sereno che non siamo stati in grado di meritare.