di Giacomo Cavaliere
La ditta di pulizie ci aveva fatto sapere che non avrebbe mandato altre ragazze. Eravamo stati già fortunati a non aver ricevuto denunce. Ne erano scappate parecchie, quell’estate, anche se non tutte per la stessa ragione. L’ultima era di aspetto troppo gradevole, vedute troppo aperte, troppo fiduciosa e troppo umana per sopravvivere tra i cinghiali. Per permetterci i mille e rotti metri quadri circondati dall’unico giardino all’inglese di Antibes, due piscine e tre fontane, dovemmo organizzare una vera cordata finanziaria. Affittammo La Jeannette du Barry da giugno a settembre, con diciotto mesi d’anticipo e l’intenzione di invitare quanta più gente possibile, da spremere per ammortizzare i costi. Non funzionò granché, se non per lo champagne, il presente caldamente raccomandato, per non dire obbligatorio, per garantire l’accesso agli ospiti.
In origine le cose sembravano andare alla grande; eravamo tutti sbronzi, nudi e felici e il modulo dell’Apollo 15 scivolava lieve nello spazio. Fu verso la fine di luglio, forse i primi d’agosto, non molto dopo l’allunaggio, che la ragione collettiva iniziò a collassare. Latenuta era una sorta di nana gialla di lampadine; tre secoli di restauri ne avevano alterato l’aspetto senza privarla della sua imperiosa anima barocca. Nessuno aprì mai gli occhi prima del tramonto, senza per questo riuscire a godersi un attimo di sincera oscurità.
Margherita non parlava del suo lavoro – fatto strano per chi incassava stipendi del suo calibro –, del matrimonio che non si faceva mai, né di Theo, che si sentiva suo marito da anni e preferiva di gran lunga scialacquare i soldi affittando magioni di nobili decaduti a cifre disdicevoli. Ma i suoi occhi grondavano sempre dei sottintesi che sigillava all’interno della bocca. Avrebbe potuto ripagare le scappatelle di Theo con la stessa moneta, ma preferiva far finta di niente, e non per la sottomissione che le attribuivamo. Non voleva privarsi del piacere di vederlo civettare con le sconosciute. Non sapevamo se fosse un gioco a due, sin dove si spingessero, né se lui fosse sicuro della propria scaltrezza come solo l’ultimo dei cefalopodi poteva essere. Ognuno aveva le sue teorie. Voci non confermate, tutte completamente plausibili. Certe stranezze erano ottimi lubrificanti per conversazioni.
L’anno prima, a Saint-Raphaël, l’amica danese, di cui nessuno ricordava il nome, la vide fuori dalla porta della camera da letto, un rarissimo pomeriggio in cui ci avvicinammo al mare. Teneva l’orecchio sulla porta, le mani strette tra le cosce, i pantaloni del sari sotto le ginocchia, bocca e orecchie spalancate per ricevere tutti i gemiti di una scopata che non sarebbe stata altrettanto piacevole, se fosse stata dall’altra parte. Si diceva che avesse fatto promettere a Theo di farsi chiunque volesse, a patto che pescasse fuori dal paniere comune. E mai, mai con Petra. Mai più, nel caso il monito fosse arrivato in ritardo. La silhouette affusolata di Petra la eclissava da ogni punto dell’orbita bordo piscina. Rodrigo, suo marito, era direttore artistico al Teatro Lara e proprietario di una casa di distribuzione cinematografica a Madrid. Aveva venti, forse trent’anni più di lei, sovrappeso e invecchiato male, senza la liquidità che credevamo indispensabile per incantare simili gioielli evolutivi. Qualcuno diceva che si scopasse Margherita – e non solo – e che a Petra andasse bene perché il ménage azzerava i contatori dell’infamia reciproca. Tutti avevano provato a portarsela a letto, scapoli e ammogliati, me compreso. Impossibile tenere conteggio di chi tradiva e con chi. Quel che era certo era che Margherita odiasse la recitazione e le attrici, specie quelle di teatro. Specie quelle belle, brave e consapevolmente unte da dio. Specialmente Petra.
Facevo la maschera al teatro Argentina, la morte di mia zia mi aveva regalato una quasi credibile illusione di agiata ricchezza, ma sarebbero serviti anni per smaltire il contraccolpo economico di quell’estate. Non ricordo più di quanto ricordino tutti. Tutti, a parte Petra, e quelli di noi con troppi soldi e agende troppo fitte per i sensi di colpa. Quell’anno fu strano, non funzionò niente, nemmeno le centrali elettriche. E anche il filtro della piscina ebbe problemi.
Poi venne il buio. Non la notte, il buio, quello vero, siderale, senza astri o barlumi celesti. L’ascolto di Maggie May s’interruppe alla seconda strofa, il collegamento radiofonico con la crociera di ritorno dell’Apollo 15 saltò. In casa avevamo quattro copie del quarantacinque giri uscito il primo di luglio – una data memorabile– caso mai le radio avessero dimenticato di passarla per qualche ora. C’erano trenta, quaranta persone in quel momento al buio. Da una settimana nessuno raccoglieva più una lattina. Avevamo buttato quasi tutti i piatti e le stoviglie per non doverli rilavare, a seguito di rapide perizie del loro valore. Vecchi, non antichi: spazzatura. La vera oscurità portò una sferzata d’euforia e applausi. Finalmente un evento, come dicevano i belgi all’alba d’ogni guerra. Parecchi continuarono a cantare, sguaiati e scomposti, una canzone che i nostri cervelli ormai riproducevano come un riflesso motorio spontaneo. Anche strascicata dall’ultimo degli ubriachi, ci fluiva nelle orecchie con la voce di Rod Stewart. Succede con qualunque canzone o aborto sonoro, se ascoltata abbastanza a lungo oltre l’umana soglia di tolleranza. I know I keep you amused, but I feel I’m being used. Oh, Maggie I couldn’t have tried anymooore! Dopo tutti quei giorni di cagnara, le viscere delle persone si ribellarono alla fine della festa. E anche quelli che nemmeno fischiettavano i jingle degli ascensori presero a cantare e a mugolare qualcosa che vi somigliasse.
In certe circostanze, distinguere le risate dal pianto non è così semplice. Quasi impossibile. Zoppicai dentro casa, le braccia tese in avanti come un morto vivente terrorizzato dagli spigoli, alla ricerca di una torcia che sapevo esserci, e che non avrei mai trovato. Qualcuno, dal piano di sopra, ancora strillava. Un uomo, una donna, forse qualcos’altro, insulti, pianti, colpi. Niente che non fosse già successo. In città non si vedeva una luce, un’intera porzione di litorale era rimasta al buio, forse l’intera costa, magari l’intero paese. Dopo una mezz’ora di cieco fracasso, riuscii ad agguantare una bottiglia. Solo il lume ardente delle sigarette segnalava la posizione degli ospiti. Quelli che non se n’erano andati. Soffiava vento di scirocco, la perturbazione saliva dal mare. I lampi sfolgoravano lontani, i tuoni quasi non si sentivano. Sbraitavano anche dalle ville vicine, con spiriti contrastanti. Musique, s’il vous plaît, seguito da scrosci di improperi contro lo stato canaglia in cui niente funzionava mai.
Scoprii che la luce era il filtro della civiltà, l’inferriata tra due galli da combattimento prigionieri della stessa gabbia. Fuori stavano litigando. Lunghe vocali squarciate e prolungate, il vociare scomposto di chi assisteva a una rissa, incastrato tra il tifo e il dovere d’intervento. Poco dopo scorsi i lampeggianti rosso blu della Gendarmerie che sfilavano nel quartiere e avvertimmo l’effetto doppler di una sirena che tangeva il muro perimetrale. Tutta la Francia è al buio, annunciavano dalla strada, in un concerto di clacson. Tornò anche la musica, brusii confusi sfuggivano dagli abitacoli delle auto per disperdersi nell’etere.
Il tonfo non proveniva dal giardino. Qualcosa era caduto, un vaso, un soprammobile, un essere umano. Il pianto disperato di una donna, quel genere di disperazione che solo un uomo potrebbe causare. Margherita era caduta dalle scale, s’era fatta male, ma non abbastanza da rimanere a terra. Figli di puttana, pezzi di merda! È solo un calo di tensione! Tentarono di rassicurarla con l’intonazione sbagliata. Margherita s’alzò subito e schizzò via nel buio del corridoio, come scappasse da un mastino; attraversò la porta a vetri della cucina e precipitò sul pavimento in uno scroscio di cocci frantumati. Il silenzio durò un attimo. Poi, uno strillo lacerante, di quelli che si sentono durante i travagli difficili. La disgrazia attirò tutti all’interno come altruistiche mosche da miele. Tolsi la copertura del divano e la avvolsi mentre altri premevano sulle ferite. In piscina ancora schiamazzavano. Afferrai il braccio di qualcuno e gli ordinai di chiamare un’ambulanza. No, niente corrente. Era Marcel. Gli dissi di uscire in strada a cercare un’ambulanza, un taxi, la polizia, l’aiuto più a portata di mano. La caricò in auto quasi incosciente e corse in ospedale.
La corrente non tornò più, né ad Atibes né in nessun’altra città della costa. All’alba, due terzi di Parigi erano ancora senza elettricità, come pure Le Havre, Lorient, Lille, il Maine, Limonges, parte della Saar, del Lussemburgo e la periferia orientale della provincia di Colonia. L’esplosione di alcuni alternatori alla centrale di Le Havre innescò un sovraccarico di corrente lungo la linea con relativa combustione delle centraline di smistamento. Il tilt di una centrale aveva portato il sovraccarico dell’impianto successivo, incapace di sopperire alla richiesta di corrente. Il picco incendiò delle turbine della centrale a carbone di Lille. Ci vollero tre giorni per estinguere l’incendio. Quella notte morirono tre pazienti collegati ad apparecchi di ventilazione assistita, altri riportarono danni cerebrali per l’ipossia sopraggiunta durante lo scarto tra il calo di tensione e l’avvio dei generatori. Venni a sapere tutto solo dopo. La notte fu lunga, molto più del normale. Tanto lunga e lenta da plasmare il realistico timore che il sole potesse non sorgere più. Tempo dopo, lessi un articolo su Paris Match in cui si parlava di un grande blackout avvenuto a New York nel sessantacinque. Le cause del blackout, estesosi in solo dodici minuti a tutto il New England fino al Maine, non erano mai state chiarite, ma il sindaco di New York riuscì a svegliare il presidente per richiedere all’invio di due battaglioni della Guardia Nazionale. Le autorità si aspettavano che il buio avrebbe acceso la miccia di una sommossa, l’occasione per delinquenti di ogni estrazione di andare a regolare conti mai dimenticati col favore delle tenebre. La polizia invitò le donne a chiudersi in casa. Le torri di controllo non poterono comunicare con gli apparecchi in volo e rimasero in attesa della tragedia. E invece niente. Non successe nemmeno questo. Centinaia di persone rimasero bloccate in metropolitana e una signora morì d’infarto dentro un ascensore. La polizia compì meno di sessanta arresti, il tasso di criminalità fu uno dei più bassi di sempre. L’effetto delle tredici ore di buio emerse nove mesi dopo, con un abnorme picco delle nascite. Lo Stato ribattezzò il grande blackout del Sessantacinque come “la notte più felice d’America”.
In Francia il blackout estivo non venne letto come un incentivo a scopare. Non nell’angolo di tenebra in cui mi trovavo, il buio non avrebbe potuto essere più nero. Un buio nel era possibile trovare nulla di buono – o di umano. Anzi, umani lo fummo sin troppo. Uomini che non avevano alcuna idea di quanto profondo fosso il pozzo nel quale ci eravamo tuffati in fila indiana.
Nessuno possedeva immagini nitide della tragedia appena consumata, avevamo bevuto molto, e bevemmo ancora. Il drappo nero della notte iniziò a stingere nel timido cobalto dell’alba, la luce ricompose da sola i tasselli di ciò che era appena successo.
Avevo i pantaloni zuppi di sangue, arcate plantari impresse a vernice rossa sul pavimento di marmo. Mi sollevai dal torpore e cercai Marcel. La tizia danese giaceva su una sdraio, il prendisole giallo insozzato di sangue rappreso. Più d’uno aveva pensato di sciacquarsi in piscina, virando l’acquamarina trasparente in un prugna spruzzato di ruggine. Quasi tutti gli ospiti, noti o sconosciuti, avevano lasciato la villa. Non dovevo essere stato l’unico ad aver circumnavigato la piscina, passando accanto al corpo di Petra che affondava sotto il pelo dell’acqua. Mi sedetti sul bordo e immersi il piede sinistro per estrarre un coccio di bicchiere dal tallone. Era rimasto all’interno troppo a lungo per sfilarlo senza riaprirmi. Una nuvola di vapore vermiglio si liberò nell’acqua clorata. Non sentii bruciare. E solo allora la vidi, il corpo inarcato al centro della schiena, gli arti puntati verso il mosaico minoico del fondale, i capelli sparsi a ventaglio nell’assenza di gravità. Niente ferite, pareva. Rimasi a fissarla a lungo prima di schizzare verso il telefono a parete e comporre invano il numero del pronto intervento. Ancora niente corrente. Qualcosa mi diceva che non avrei trovato Theo. Non lo vedevo da ore, da prima che calasse la vera notte e tutto cominciasse a precipitare, fino a schiantarsi contro il primo fotogramma a colori del nuovo giorno. Non rividi più nessuno di quell’estate. Petra non aveva la notorietà sufficiente per rendere l’evento immortale, i giornali non ne parlarono più di un paio di giorni. Molte teorie avremmo sollevato a proposito di quella notte. Noi, qualche giornale, la polizia, l’agenzia immobiliare che gestiva l’immobile, i vicini. Tutte completamente plausibili.