di Giuseppe Caretta
Ho ucciso il cane dei vicini deliberatamente, con assoluta intenzionalità e coscienza. L’ho fatto per amore verso mia nonna. Ho perciò agito in conformità alle circostanze e, mi sia consentito dirlo sin dal principio, non nutro in merito nessun rimorso.
Tutto è iniziato con la sua prima cucciolata. Da quando quella cagna maledetta ha messo al mondo i suoi piccoli, l’intero rione è stato obbligato a convivere con il latrato perenne di questa muta di pittbull inavvicinabili. Dalle prime ore dell’alba a notte fonda. Nessuno dei proprietari che abbia mai mosso un dito. Eravamo gli unici a soffrirne? Per niente. Eravamo solo quelli che gli abitavano sopra.
La loro casa è provvista di un bel giardino ad angolo, ha una cantina spaziosa e diverse camere da letto per accogliere le quattro figlie e il maschio della casa. Il padre pare sia morto impiccandosi in bagno. Una di loro, la terza, l’ha trovato di rientro da scuola. Di conseguenza il nucleo familiare è andato avanti stringendosi in un solo gruppo. Tutti compatti, a spalleggiarsi a vicenda. Il loro perimetro è inviolabile, la loro sfrontatezza assoluta. Forse se ci avessi vissuto io lì, al posto di nonna, le cose sarebbero andate altrimenti. Forse mi ci sarei impuntato fino a farmi spezzare le gambe a sprangate o forse, più verosimilmente, avrei finito con l’accettare come tutti di avere per vicini della gente alla quale non si poteva dire assolutamente nulla, pena la propria incolumità. Ma tant’è, questo è quanto avvenuto.
All’epoca, di cani ne erano rimasti soltanto tre. Vivevano in una condizione di abbandono quasi assoluta. Mangiavano, dormivano e cacavano in quel pezzo di giardino riscaldato per ore da un sole impietoso. L’odore di merda saliva su fino al cielo e i loro latrati ti entravano nel cervello come un prurito insostenibile. Veniva voglia di urlare, di andargli a sfondare la porta a calci per prenderli a schiaffi uno per uno: madre, figlio, figlie e cani annessi. Con nonna ci trovavamo in piena notte con gli occhi sbarrati. Provavamo a rimetterci a letto dopo aver vagato per casa senza meta.
Così, una mattina in cui facevamo colazione ho visto nel suo sguardo una tale disperazione che ho elaborato il mio piano di vendetta. A dire la verità è stata lei a darmi lo spunto.
«Perché non c’è nessuno che li ammazza, ‘sti cani maledetti?». Ho allora compreso la mia missione.
Sapevo di non poter sbagliare neppure un dettaglio, quindi mi sono messo per prima cosa a cercare informazioni. È stato in questo modo che ho avuto quello che non mi vergogno di definire un autentico colpo di genio. Anziché un elenco generico di veleni la cui comprensione mi avrebbe portato via ore di lavoro, infatti, ho ipotizzato che qualcuno avesse tentato di far fuori il mio cane e che, disperatamente, stessi cercando di salvarlo dalla morte. Quello che mi si è aperto davanti è stato un mondo inatteso quanto affascinante. Ci sono vari tipi di avvelenamento, a noi scegliere il più appropriato.
Anzitutto devo sfatare un mito: i topicidi non sono i veleni migliori per scopi del genere. Questi tipi di sostanze, come ad esempio il brodifacoum, provocano un’inibizione della vitamina K e rendono il sangue più fluido, è vero, ma non uccidono direttamente. Una volta che la vittima abbia ingerito il veleno la sua morte sopravviene per cause terze quali emorragie interne, attacchi cardiaci eccetera eccetera. Il sangue cioè non coagula. Anche un semplice urto può quindi provocare la morte. Ciò ha senso nel caso dei topi, che si intrufolano in passaggi angusti e, di conseguenza, sono più esposti a traumi accidentali. Ma per un cane domestico tutto ciò è assolutamente superfluo. Rischiavo di sprecare giorni di attesa per non avere nessun effetto. Io volevo qualcosa di rapido, immediato.
Neanche la stricnina seppur letale, e nonostante il fascino che il suo nome evoca in ottica omicida, faceva al mio caso. Troppo difficile reperirla senza rischiare di dare nell’occhio. Il glicole etilenico mi ha dato qualche speranza. Dopo circa trenta minuti il cane avverte nausea, vomito. Beve e urina in quantità pazzesche. Purtroppo però, anche in questo caso, per avere degli effetti importanti bisogna attendere fra le otto e le dodici ore, mentre io non avevo tempo. L’unico momento buono sarebbe stato a sera tardi, quando i due cuccioli venivano portati in casa per la notte mentre la madre restava a dormire in giardino. Dovevo essere un ninja, colpire e scomparire nell’ombra.
La soluzione mi è balzata agli occhi quando sono infine incappato nella metaldeide. Veleno usato per sterminare le lumache, gli effetti di questo farmaco sono simili in tutto e per tutto a quelli della stricnina con la differenza che, mentre per quella si può correre ai ripari inducendo l’animale al vomito – ad esempio facendogli bere il corrispettivo di un cucchiaio di acqua ossigenata per ogni cinque chili di peso – per quest’altra non vi è alcuna soluzione se non quella di precipitarsi il più velocemente possibile dal veterinario, cosa che risulta logicamente impossibile se, come io mi ero prefissato, l’avvelenamento avviene nelle ore notturne. Trovato quello che stavo cercando, non ho dovuto far altro che continuare in una serie ininterrotta di azioni complementari.
È molto semplice, in realtà, la fisiologia di un assassinio. Mi sono recato in un centro commerciale e ho scelto con accuratezza la mia scatola. Su di uno sfondo giallo pascevano placide, ma ancora gagliarde, delle belle lumachine con le loro antenne tese verso il cielo. Alla cassa mi sono domandato se per caso la donna avrebbe mai potuto riconoscermi. Dovessi uccidere un uomo andrei a quelle automatiche.
Fatto ciò, sono andato da un macellaio e ho preso un chilo di carne macinata di prima scelta. Dovendo andarsene – ho pensato – meglio che lo faccia con un buon boccone nello stomaco. È come l’ultimo pasto prima della sedia elettrica. La mano che uccide è sempre guantata di una certa magnanimità. Credo sia espressione dell’errore oggettivo a cui un compito tanto arbitrario la espone.
Poi son tornato a casa e ho mostrato a mia nonna quello che avevo acquistato. «Non voglio sapere niente José – mi ha detto – Ti prego, mi fa troppo male quello che stiamo facendo».
«Tu non c’entri», le ho risposto. «Sì invece, sono tua complice». È andata via con un’aria molto triste. Io invece mi sentivo gagliardo. Era come se stessi compiendo una missione segreta per conto del governo. Uscivo in balcone e guardavo la bestia piena di energia. «Fra poco sarai morta», le dicevo, e non riuscivo a collegare i due momenti in un’unica esperienza. Una ebrezza da boia mi elettrizzava tutto. L’ho lasciata abbaiare concedendole la grazia di un’ultima sera di esistenza. Per un attimo, però, i nostri sguardi si sono incrociati e io ho avuto l’impressione, direi quasi la certezza, che sapesse quanto per lei rappresentassi un pericolo. Le intenzioni malvage, probabilmente, hanno una loro specifica intensità proprio come quelle più lodevoli. La cosa mi ha turbato parecchio.
Verso mezzanotte tutto era silenzio. Ho impastato metà del macinato con i granuli azzurri del veleno. Ne è venuta fuori una carne violacea dall’aspetto mortifero. Tutto ha preso un tono sinistro. Sono scivolato fuori acquattandomi. Se qualcuno mi avesse visto sarei stato davvero nei guai. Arrivato in posizione ho fischiato e lei è venuta proprio sotto di me scodinzolando stupidamente. Il cuore mi batteva forte. Ho fatto una pallottola con le mani tremanti e l’ho gettata dabbasso. Ha impattato con un suono sordo, simile a quello di un pugno contro una coscia. Nel silenzio sembrava dovesse svegliare l’intero quartiere. Dopo qualche minuto ho sporto la testa. Il cane era lì, scodinzolava. Per circa venti minuti sono andato avanti in questo modo poi, non so perché, mi è sembrato sufficiente. Ho rifatto la strada al contrario, ho messo la carne rimasta in frigo sigillandola col nastro adesivo e sono andato a dormire. Stranamente ho preso sonno all’istante. Forse sono malvagio, non c’è altro da aggiungere.
L’indomani mattina, come un bambino che aspetti i regali di Natale, sono saltato giù dal letto e mi sono diretto sul luogo del misfatto. E lì la sorpresa. Il cane era ancora in perfetta forma. Sono stato preso dal risentimento. Se era la guerra che voleva, aveva trovato la persona giusta.
Al calar della notte ho ripetuto tutte le operazioni del giorno precedente, raddoppiando la dose di metaldeide. L’impasto è diventato di un blu cobalto, simile alle onde del mare al tramonto. Mi sono appostato e, un pezzo alla volta, le ho dato tutta la carne rimasta. Solo allora, me ne sono andato a dormire. Nonna mi ha svegliato piano. Era in vestaglia e senza dentiera.
«È morto», ha detto soltanto. Allora sono uscito per osservare. Il corpo dell’animale era pietrificato. Sembrava gonfiato con l’aria compressa. Attorno al muso una chiazza di liquido blu come le onde del mare al tramonto. La famiglia e un uomo che doveva essere il veterinario le stavano attorno. Ero dispiaciuto di aver provocato tanto dolore nella vita di qualcuno. Nel pomeriggio abbiamo saputo che erano distrutti. Le ragazze non volevano più uscire di casa diffidando di tutti. Il figlio s’era chiuso in un silenzio impenetrabile.
Nonna mi ha chiamato alla scrivania. Era al computer, una pagina di Facebook aperta sul profilo del ragazzo. Leggi, mi ha detto: “Oggi il mondo mi ha mostrato un’altra volta la sua cattiveria” c’era scritto. “Oggi un essere innocente, una cagnolina che non aveva mai fatto del male a nessuno, un membro della nostra famiglia, una parte di noi, un pezzo della nostra vita, è stato brutalmente ammazzato da qualche vigliacco. Chiunque sia, gli auguro una morte altrettanto dolorosa. Non avresti dovuto farlo. Non oggi, anniversario della morte del mio amato papà. Giuro su Dio che ti trovo”. Senza reagire ho messo una mano sulla spalla di nonna. «Non ti preoccupare. Non possono sospettare minimamente», le ho detto. Poi sono andato a farmi una doccia cercando di non cedere al panico. «Cagnolina innocente – ho concluso – ma come si fa? Che razza di gentaglia».
[illustrazione di copertina a cura di Sergio Kalisiak]