di Giuseppe Fiore
Lei è bionda con i capelli che scendono sul collo. Indossa un pantalone bianco, con una maglietta a maniche blu di qualche film. Sta uscendo. Mi butto dietro di lei che sembra essere l’unico elemento interessante della serata. Usciamo. Tira fuori un pacchetto di sigarette. Io tabacco, cartina e filtro. Mi guarda. Io non la guardo. Lei accende. Le chiedo l’accendino. Le chiedo di che film è la maglietta. Fa un nome che non ho mai sentito. Le dico che non conosco troppi film, preferisco leggere. Mi chiede chi è il mio autore preferito. Le dico David Foster Wallace. Mi dice che anche a lei piace. Sembra una casualità assurda. Parliamo di Infinite Jest e della solitudine, delle aspettative che gli altri hanno su di noi, delle aspettative che ci portano a essere dei fallimenti. Parliamo della tv, delle note in fondo al libro e della pigrizia che ci contraddistingue come razza intelligente. Mi propone una birra. Le dico di sì. Non mi annoio. Ci spostiamo. Parliamo del suicidio e di quanto non riuscire a trovare un modo per rispettare l’idea che gli altri hanno di te possa portarti alla depressione. Parliamo dei risultati da ottenere, delle minuscole possibilità di vittoria e di soddisfazione. Finiamo su una panchina. Il locale spinge per farci smettere di parlare. Critichiamo un posto con pochi che riescono e tanti che soffrono. Potrebbe essere altrimenti? le chiedo. Non risponde. Parliamo della divinizzazione di quella cerchia di intoccabili che vivono su una frequenza di realtà diversa dalla nostra. Pubblicano, scrivono, dirigono, recitano, decidono, ma il loro materiale ci giunge da minuscoli eden. Finiamo in una passeggiata ricca di incontri. Prima un signore con una gobba più alta della testa. Poi bambini che passeggiano verso genitori che non li attendono. Lei non vuole figli, mi dice. Neanche io, penso. Ma non lo dico. Mi porta in un cinema nascosto. Ogni tre ore parte un film, un classico o qualcosa del genere. Entriamo, rimaniamo in silenzio per dieci minuti. Abbiamo parlato così tanto da aver bisogno di ritornare tristi per un po’, altrimenti ti convinci che va tutto bene e poi ci rimani male. Mi prende la mano. Parte il film.
Lei sarebbe stata bella se solo non si fosse sentita costantemente giudicata. Sarebbe uscita da quel locale per fumare e io l’avrei seguita per la voglia di ascoltare quel poco con cui mi avrebbe allontanato. L’avrei seguita fuori, le avrei chiesto l’accendino, fingendo di non averlo. Le avrei chiesto a quale film facesse riferimento l’immagine della sua maglietta. Non l’avrei sicuramente conosciuto e avrei provato a fare colpo con la mia passione per i libri. Lei sarebbe rimasta stupita, perché chi la considera ancora una passione? Le avrei detto che il mio autore preferito è David Foster Wallace. Lei avrebbe detto di conoscerlo e avremmo iniziato a parlare. Avremmo parlato della solitudine e di come la nostra mente deve diventare delle dimensioni di uno scantinato minuscolo per arrivare a progettare un suicidio. Lei mi avrebbe invitato in un altro locale. Saremmo entrati e non ci sarebbe piaciuto. La folla avrebbe intaccato le nostre parole. Saremmo usciti e ci saremmo seduti su una panchina. Avremmo parlato della dittatura della velocità e della pigrizia. Avremmo parlato del caldo estivo dall’asfalto, della violenza e della tranquillità con cui scorriamo avanti. Avrei anche pensato di baciarla con il terrore di rovinare tutto. Avremmo parlato dell’amore e avremmo riso pensando al grande cinema paragonato alla grande letteratura. Avremmo dato la colpa al dover creare una situazione con la sola forza della mente. Avremmo parlato delle potenzialità andate perse nel corso della storia. Di film di merda con trame interessante. Di super poteri assopiti. Avremmo parlato ancora di solitudine perché, in qualche modo, sarebbe stato il sentimento più comune tra noi. Poi lei mi avrebbe portato a casa sua. Saremmo entrati e ci saremmo seduti sul divano. Lei avrebbe acceso la tv. Sarebbe partito un film che avremmo guardato fino alla fine.
Lei sarà biondina. Io sarò nel suo stesso bar e l’avrò adocchiata per il suo modo di porsi verso gli altri. Lei uscirà per fumare una sigaretta e io la seguirò. Le chiederò l’accendino, me lo presterà e io approfitterò del contatto per chiederle a quale film fa riferimento la maglietta che indossa. Non conoscerò il titolo e le dirò che mi piace la letteratura. Mi chiederà qual è il mio autore preferito. Le risponderò David Foster Wallace. Lei lo conoscerà e ne parleremo. Mi dirà che si è sentita sola per tanto tempo, che è colpa della mente se finiamo per ristagnare nelle nostre convinzioni credendo di non esserci dentro fino al collo. Mi dirà che tutto quello che ci mettono davanti lo sfruttiamo per non rimanere soli. Mi prenderà per mano e mi porterà in un locale. Scapperemo via terrorizzati. Cammineremo e parleremo ridendo. Mi dirà che i problemi rimangono sempre quelli, invariati da secoli. Mi dirà che per un periodo ha creduto di essere depressa e che si sarebbe uccisa se non le fosse mancato il coraggio. Mi dirà che il letto è stata la sua tomba, che sembrava così comoda da non voler andare via. Mi dirà di non essersi mai alzata veramente da quel letto e che, alla fine, si è uccisa in un pomeriggio caldo d’inverno. Non mi dirà come, potrò solo immaginarlo. Mi dirà che forse solo i poeti si ammazzano davvero. Solo chi trova nella letteratura l’unico scatto per non lasciarsi andare, alla fine cede. Perché la letteratura, per quanto possa diventare un’ossessione, non riuscirà mai a diventare la vita stessa. Mi dirà che prima di uccidersi ha pensato proprio a questo. Penserò allora di essere uno stupido per aver creduto in qualcosa come la parola scritta quando i paragoni si fanno con persone che si ammazzano per credere in qualcosa. Mi dirà che non c’è altro, solo sfaccettature di solitudine e morte. Piangerò davanti a lei e lei non mi consolerà. Saliremo a casa mia, in silenzio e senza voglia di nulla. Accenderemo la tv. Partirà un film che non vedremo fino alla fine.