di Caterina Iofrida
A quanto pareva, aveva acconsentito. Laura allungò la mano destra verso il calice, lo sguardo fisso sull’avanzo di risotto che aveva nel piatto, e bevve un lungo sorso di vino, evitando accuratamente lo sguardo delle persone sedute al tavolo assieme a lei. Faceva caldo e, come a ogni tavolo di matrimonio che si rispetti, nessuno sembrava essere autenticamente a proprio agio. Forse per questo aveva commesso, così, subito, all’inizio della cena, un errore tanto stupido. Si maledì silenziosamente e si alzò in piedi, mormorando qualcosa di vago a proposito della toilette. L’erba umida le bagnava i piedi, stretti nei sandali scomodi – come, del resto, ogni scarpa da matrimonio che si rispetti. Si allontanò dal giardino verso l’edificio, una grande villa adibita a ristorante di lusso, dove si svolgevano spesso i ricevimenti che seguivano ai matrimoni della zona, ma non vi entrò. Imboccò invece un viottolo a sinistra della villa, ritrovandosi su di un piccolo prato sul retro, deserto e appena illuminato da un unico, piccolo lampione. Il prato affacciava su di una valle profonda, che si spalancava davanti ai suoi occhi, e, nel buio, era difficile distinguere dove il terreno iniziasse a digradare. Una leggera brezza le scompose i capelli, un piacere fresco e improvviso. Andò a sedersi sulle scalette del portone posteriore, che era serrato, aprì la borsetta e con tutta calma, con gesti lenti, come attentamente ponderati, ne estrasse un pacchetto di sigarette e se ne accese una. La fiamma dell’accendino brillò nel buio e al primo, lento, tiro, assaporando quel calore e quel sapore tanto familiari socchiuse gli occhi. Si appoggiò con la schiena e i gomiti al gradino dietro di sé e distese i muscoli. Non le andava di pensare a niente; voleva solo starsene lì, ascoltare i grilli frinire e godersi il fresco della notte. Suo malgrado pensò, però; pensò che, in fin dei conti, avrebbe pure potuto non tornarci più, al suo tavolo. Cominciò a fantasticare su questa eventualità, definendo tra sé e sé i dettagli spiccioli – le sarebbe servito un taxi, ma non era certa di avere con sé contanti sufficienti; doveva trovare il verso di recuperare la sciarpa, le piaceva così tanto – ed evitando deliberatamente di pensare a implicazioni più sostanziali della faccenda, come le spiegazioni da dare in seguito agli sposi e la loro probabile irritazione.
– Me ne offrirebbe una?, la voce le arrivò da qualche parte al di sopra della sua spalla destra. Laura voltò la testa e vide, appoggiato al davanzale di una finestra aperta al pianterreno della villa, un tizio che, a giudicare dalla divisa, si trovava lì in veste di cameriere. Era un uomo sulla trentina, i capelli scuri un po’ troppo lunghi per restare in ordine correndo su e giù tra i tavoli. La stanza da cui si affacciava era completamente buia; l’unica luce in scena era, ancora, quella del piccolo lampione, che, dal punto di vista dell’uomo, circondava Laura con un alone circolare preciso, come un riflettore di Broadway puntato sull’attrice di turno, cui infatti spettava la prossima battuta. – Certo, nessun problema», Laura estrasse di nuovo dalla borsetta il pacchetto e l’accendino e con la mano sinistra – con l’altra teneva la sigaretta accesa – glieli porse, senza alzarsi, allungandosi pigramente all’indietro dal suo gradino. L’uomo li prese e accennò un sorriso come risposta, poi, mentre lei attendeva immobile, tesa nella sua posizione allungata, rapidamente procedette all’estrazione della sigaretta e l’accese, per poi restituirle il tutto. Laura si accomodò di nuovo e per qualche minuto restarono in silenzio.
– Com’era il risotto? Non sono riuscito ad assaggiarlo.
– Non me ne ricordo.
– Non troppo buono, forse, allora.
– Ma no, è che non… non sono in vena di concentrarmi sul cibo, al momento.
– Capisco.
– Francamente, non sono tanto in vena neanche di fare conversazione.
– Per questo è scappata qui?
– Esattamente.
– C’è stato qualcosa in particolare che l’ha disturbata, a cena?
– In effetti sì, anche se non vedo come la faccenda possa riguardarla.
– Sono solo curioso. Certe serate sono noiosissime.
– Questo lo immagino, sì.
– No, mi scusi, io non credo proprio che lei lo immagini.
– Questa è bella! E perché no?
– Perché lei – di nuovo, mi scusi – non mi pare il tipo da avere idea di come si svolga la serata di un cameriere a un ricevimento.
– Non è soltanto deciso ad annoiarmi, sta anche cercando la polemica, è così?
– No, no. Non ero serio. Mi spiace. Forse non ci intendiamo sull’umorismo, noi due.
– Se questo lei lo considera scherzare, è certamente così. A questo, lui scoppiò in una risatina soffocata, poi entrambi tacquero.
Dopo qualche minuto avevano finito di fumare, ma nessuno dei due accennava a muoversi. I loro sguardi parevano perdersi nel fondo della valle buia davanti ai loro occhi.
– Non sono sempre così stronza, sa?
– Non ho motivi per non crederle.
– Non sopportavo più di restare seduta a quel tavolo. Quelle persone sedute vicino a me… i miei amici, se così li vogliamo chiamare… bah, non voglio annoiarla, lasciamo andare.
– Ma se a me interessa moltissimo! Le ho detto che sono curioso.
– Beh, loro… mi tormentavano, ecco. Da mesi insistono su di una questione… Mi fanno pressioni perché faccia una cosa… una cosa che a me non va affatto di fare… e stasera hanno deciso di tornare all’attacco. Così, tutti assieme… coalizzati.
– E lei ha ceduto.
– Lo ammetto.
– Ahi.
– Ho ceduto; così, ora sarà molto più faticoso tirarmi indietro. Loro diranno che mi rimangio la parola data, il che, poi, non è propriamente una cosa da me… Ma devo farlo, a questo punto. O finirò per detestare me stessa.
– Posso chiederle che cavolo… Voglio dire, che razza di promessa… Insomma, per accontentarli, che cosa ha accettato di fare?
– Ecco, no. Non può chiederlo.
– Okay.
– Ma poi, come le viene in mente, scusi?
– Che cosa?
– Dico, come le viene in mente di chiedere a me… Che sia il caso di chiedermi conto delle mie faccende private.
– Ed ecco che ci risiamo. Chiederle conto! Io sono solo qui che mi annoio, al lavoro di sabato sera, mi si presenta l’occasione di poter ascoltare una storia e la colgo al balzo. Tutto qui.
– …Poverino.
– Come, scusi?
– Poverino, dico. A dover lavorare al sabato sera. L’unico a farlo, secondo lei.
– Ma di che… si può sapere di che cavolo sta parlando? Ho forse detto di essere l’unico?
– È quello che intendeva dire. Al lavoro di sabato sera… ma non le capita mai di ascoltarsi, da fuori?
– Basta. Che non sia sempre così stronza, beh, lo spero davvero per lei!
– …
– Comunque, lasciamo andare, per carità. Voglio la storia.
– La storia?
– La sua storia. Quella della sua… misteriosa promessa.
– Oh, uffa!
– Su, sia buona.
– Io sono già buona. La sigaretta che ha fumato è mia, se si ricorda.
– E come potrei dimenticarmene? Un fatto estremamente significativo.
– Potrei spingermi fino ad offrirgliene un’altra.
– Un nobile tentativo. Ma no, grazie; lei sa cosa voglio.
– Ma prima dovrei rivelarle così tanto di me. Per raccontare bene la storia, lei capisce.
– Chiaro. Le storie, poco importa se siano vere o false; l’essenziale è che siano raccontate bene, o non valgono nulla. Non c’è scampo.
– Un punto su cui siamo d’accordo.
– Finalmente.
– Ma noi non disponiamo di tempo sufficiente.
– Primo, parli per sé; secondo, lei vuol davvero tornare di là? Al suo tavolo?
– È buffo; è proprio quel che mi stavo domandando, quando lei è…, e qui Laura fece una pausa, concentrata sulla ricerca della parola, – …sbucato.
– Sbucato.
– Sì, come venuto fuori dal nulla. Non è così che ha fatto?
– Non me n’ero accorto. Ma mi piace! Sì, sa che cosa penso? Che dovrei sbucare più spesso.
– Bah, contento lei.
– Io sono contentissimo, con-ten-tissimo. Ma veniamo a noi. Cioè, a lei.
Marco, in piedi, contemplava il giardino da dietro i vetri. Aveva già compiuto tutta quella serie di rituali che, da esseri subumani emergenti dalla notte, trasformano le persone in gente quasi sopportabile. Tuttavia c’era parecchio grigiore, là fuori; abbastanza da stabilire che certe faccende, degne di nota in base a una sua precedente valutazione, in fin dei conti poteva ignorarle e rimettersi direttamente sotto alle coperte. Era ancora fermo in piedi quando sentì uno squillo provenire da qualche punto imprecisato tra i meandri delle lenzuola del grande letto sfatto alle sue spalle. Quelle lenzuola bianchissime profumavano di lavanda; era sempre così con gli hotel di lusso, uno dei pochi lati del suo lavoro che non esitava a definire fantastico, anche quando parlava con sé stesso. Dopo tre o quattro squilli era riuscito a impadronirsi del telefono e, dopo un’occhiata al numero sul display, se ne usciva con – È sabato mattina! Si può sapere chi parla?
– Non l’hai fatto, è così?
– Oh, sei tu.
– Sorprendente, no?
– In effetti, la tua scaltrezza mi ha sorpreso.
– Non scherzare. Non l’hai fatto, vero?
– Ma certo che l’ho fatto! Per chi mi prendi, scusa?
– Io… ah… d-davvero?
– Già.
– E c-come…
– Cristosanto. Non vorrai mica i dettagli, spero.
– No… Sì… Voglio dire… no, no, naturalmente no… ma come fai… come fai a… sei certo che sia tutto a posto? Tutto finito?
– Finito. È morto.
– Oddio! Ma… ma ti pare il caso…
– Non è questo che volevi sentirti dire? Odio girare intorno alle cose. E poi questo non è il tuo numero, no? Le precauzioni le hai prese. Sta’ tranquilla.
– Hai… hai ragione. Beh, infatti adesso mi sa che ti devo lasciare, non sarebbe prudente…
– Già.
– E probabilmente sarebbe meglio, per il futuro, che noi… che noi non ci vedessimo…
– Mai più. È essenziale.
– Bene. Molto bene. Solo, volevo chiederti…
– Sì?
– Beh, perché l’hai fatto? Voglio dire, prendersi questo rischio per… per un’estranea.
– Tu l’avresti fatto, per i tuoi… beh… amici.
– È diverso.
– Come no. Coi begli amici che ti ritrovi, poi, sarebbe stato perfettamente ragionevole.
– Tu scherzi.
– Un comportamento che si addice oltremodo alla situazione. Non concordi, forse?
– Io… io non lo so.
– Dai, mi aspetto qualcosa di meglio da te.
– …
– …
– Anche se… non vorrei sembrarti maleducato, ora, ma, sia chiaro, non è per te che l’ho fatto.
– No?
– Per nulla, cara signora Scappo-Dai-Matrimoni. Neanche un po’.
– E perché l’hai fatto, allora?»
– Perché, con ogni fibra di me stesso, sopra ogni cosa…
– Sì?
– …io non sopporto che qualcuno venga spinto con insistenza, manipolato, affinché faccia qualcosa.
– Tutto qui?»
– Tutto qui. Il mio tremendo segreto.
– Sai che penso, Killer-Per-Caso?
– Sono sinceramente curioso.
– Che il tuo sia il segreto più pericoloso che abbia mai sentito.
–––
Sono Caterina e, da bambina, l’unica cosa che mi piaceva fare era scrivere. Adesso ho 38 anni e non sono cambiata granché.