di Dario Valentini
– Comporre un disco straordinario è un lavoro di precisione, come…costruire un orologio! – , esclamò Boscolo gesticolando. Cenni delle mani che nella sua testa dovevano rappresentare la fine meccanica del songwriting.
– Anzi! – esplose – È come pianificare una rapina in banca! Un colpo stupefacente tipo quello di Inside Man o… Inception! –. La band gli sembrò più attenta e si congratulò con sé stesso per la metafora. Poi li guardò meglio: Frison stava trattenendo uno sbadiglio. Ormai conosceva l’arringa a memoria. Ballerini guardava fuori dalla finestra e muoveva le mani sognando di suonare chissà che intricato riff. Rampino lo fissava, e si scaccolava furiosamente. Forse era solo un’impressione. Continuò: – Ognuno di noi ha la sua parte da giocare, movimenti specifici da compiere senza sbagliare e solo insieme, muovendoci come una cosa sola, potremo uscirne vivi e con il bottino. E il bottino è la Gloria!
Frison alzò gli occhi al cielo. Ancora questa storia. Gli sproloqui di Boscolo avevano fatto scappare vari musicisti nel corso degli anni. Musicisti validi.
– E la Gloria, una volta rubata sarà per sempre nostra! Lo capite o no? Avremo un posto nella storia della musica!
Ballerini si accese una sigaretta. Come diceva sempre, poteva sopportare le stronzate di Boscolo solo fino a una certa senza fumare una Lucky.
– Ma attenti, non sarà facile, e il rischio è peggio della morte! È il ridicolo, il banale! Per scrivere un disco seminale saremo costretti a sanguinare, vi ho scelti perché siete il meglio del meglio! –. Insomma, il meglio che aveva trovato, pensò.
– Certo il Veneto non è il Mid-West – commentò Frison.
– Ed è proprio questo il punto! Nessuno ha mai provato a fare una cosa così. Mettiamoci a lavoro cazzo – concluse Boscolo.
Rampino, a differenza degli altri, non aveva mai smesso di annuire durante il discorso. In realtà non aveva mai smesso di ondeggiare con cadenza regolare avanti e indietro con il busto. Pensò che Boscolo aveva proprio un fare strano: cupo, nervoso, come se stesse sempre tramando qualcosa. Covava tempesta. Eppure aveva un che di magnetico. – Oh sì, lui mi piace – sibilò qualcosa dentro la sua testa.
– Come dici? – mosse appena le labbra Rampino, poi emise un ronzio a bocca chiusa. Come un bramito. Si passò la lingua sui denti. Stalattiti frastagliate. Zanne di cane idrofobo.
Annuì ritmicamente. Lo sguardo perso nel vuoto. I ragazzi lo guardavano dall’altra parte del vetro.
– Rampino ci sei? – chiese Boscolo. –Come lo vogliamo fare sto fill?
– Ci sono – rispose Rampino. – Ora lo so –, fece un sorriso sgangherato.
Gli mancava più di un dente: l’ultimo che aveva perso, l’incisivo centrale destro, l’aveva lasciato nel moshpit al concerto degli Ojne. Concerto davvero memorabile peraltro. Tutta la band si era presa un sacco di stecche ed aveva dormito stremata ma particolarmente soddisfatta nel parcheggio del Circolo Mesa. Riposo dei guerrieri. Il canino sinistro invece l’aveva lasciato al concerto dei Noise Trail Immersion tentando di fare stagediving in un momento molto, molto sbagliato. Ma che gli aveva definitivamente guadagnato un posto in squadra. Croce di ferro al valore militare.
La traccia partì in cuffia. Rampino picchiò talmente forte sul rullante che quasi ruppe la pelle. Gli altri sobbalzarono. Pestò feroce sulla cassa e mulinò le braccia sui tamburi. Sembrava che ne avesse quattro. Di braccia. Infine colpì il crash con una sciabolata in diagonale. Registrò un fill perfetto. Immacolato.
Persino Boscolo, per una volta, non aveva aperto bocca.
– Ancora –, disse.
– Secondo me andava bene – replicò Boscolo.
– Ancora –, disse Rampino come se non avesse sentito.
Boscolo scrollò le spalle e guardò gli altri.
–Mandagli la traccia – disse Frison. – Sai com’è fatto.
E il fatto secondo Frison era questo: Rampino ascoltava molto più Metal degli altri, e sul pianeta terra, stella natale di alcune delle band Metalcore più fracassa-ossa e sciogli-faccia di tutto lo spazio-tempo, la precisione era la qualità a cui ogni batterista ambiva più di ogni altra. Non c’era storia.
Rampino era cresciuto mangiandosi a colazione le devastanti geometrie ritmiche di gruppi come Architects, Misery Signals e Northlane. Poi aveva preso quella deriva Mathcore che piaceva così tanto a Ballerini e Boscolo e le loro canzoni avevano iniziato ad essere contaminate da una pioggia di dissonanze, parti ultra-tecniche e pugni in bocca alla Arusha Accord e Converge.
Insomma, se non si fosse capito, era una bestia a suonare. E questo era cosa buona e giusta. Scriveva partiture martellanti, criticamente deviate. E questo era cosa buona e giusta. Non lo trovavi un batterista con un background Punk che sapesse suonare così e lui in effetti sapeva suonare di tutto: blast beat, poliritmi, tempi dispari. You name it! Aggiungeva di sicuro qualcosa di strano al già strano mix di influenze degli altri. E tutto questo era cosa buona e giusta. Ma Dio Santo. Quanto rompeva i coglioni. A volte più di Boscolo.
Nel frattempo Rampino contava i secondi, ondeggiava con la testa su e giù. Batteva il manico delle bacchette sulla parte metallica del rullante, cambiava impugnatura in continuazione. Controllava le accordature. Quando stava fermo, gli prudevano le dita. Gli veniva l’affanno. Registrò ancora.
– Di nuovo, troppo lento –.
– Guarda che lo mettiamo apposto con l’editing –, azzardò Boscolo.
Rampino si grattò il cranio pallido tra i capelli rasati. Portati cortissimi. Lo sporcò con la sostanza nerastra che aveva sempre sotto le unghie. Mangiucchiate quasi fino alla carne. O erano le unghie sporche della sostanza nerastra che aveva sotto il cranio? si era chiesto un giorno Ballerini. Non era mai riuscito a venirne a capo.
– È un cazzo di autistico – sussurrò Boscolo – un cazzo di autistico.
– Ma cosa ne sai tu dell’autismo? – sbottò Frison.
– A me in fondo piace! È un perfezionista – sorrise Ballerini.
– Sì ma non abbiamo tutto il tempo del mondo – ribatté Boscolo.
– Suonerà più naturale se facciamo meno editing, più organico, non lo volevi così?
– Ancora– , ripeté Rampino senza prestare attenzione al discorso dei ragazzi. Guardava al di là del vetro e non sembrava fissare niente in particolare. Gli occhi erano grandi. Neri. Densi quasar ossidiana i cui tentacoli spiralavano all’esterno in delle terribili occhiaie. Sembrava che non dormisse da mesi. Gli altri sapevano che di notte suonava, faceva pratica per ore e ore in quella loro saletta, ora adibita ad home-studio, e costruita nella cantina della casa dei suoi nonni. Adesso morti. Forse per un’aritmia, forse per il casino che faceva.
Rampino riregistrò il fill otto volte. Poi, quando gli altri avevano perso le speranze sentenziò: – Avanti –.
Frison sospirò e si stiracchiò sulla sedia. Boscolo esclamò – Avanti! Avanti! –.
Rampino registrò la parte successiva fino a quando non fu soddisfatto. Poi quella dopo. Poi quella dopo ancora. La stamina che aveva impressionava. Era un tipo secco ma picchiava come un vitello. E dannatamente veloce. Suonava scalzo, sempre senza maglia anche in inverno e sudava comunque. Sudava un sacco. Per la fatica e per la tensione. Era come se per lui sbagliare un segmento fosse una questione di vita o di morte. Questo a Boscolo piaceva un sacco e gli faceva mandare giù il resto del pacchetto. Alla fine delle prove Ballerini gli andava incontro con un asciugamano e lo asciugava tutto, come un arnetto. Rampino neanche ci badava e più volte era uscito all’aria fredda tutto bagnato salvo poi ammalarsi e non venire alle prove. Questo invece faceva incazzare Boscolo come una iena.
I ragazzi gli lasciarono fare quante riprese voleva, tanto era impossibile convincerlo. Non si muoveva alla parte successiva se non era soddisfatto.
Ballerini era l’unico che si incantava davvero a guardarlo suonare. Poteva rimanere così per ore: era così preciso. Pensavi sempre che non ce l’avrebbe fatta a colpire quel piatto in tempo sul quarto quando ingarbugliava le mani tra i tamburi. Eppure ce la faceva sempre, non importava quanto complesso fosse il ritmo, quanto ambizioso l’intreccio di gambe e braccia. Le muoveva come se fossero dissociate, ogni arto un cervello separato. Tornava su quel piatto alla fine del quarto. Sulla familiare griglia del metronomo prima che fosse troppo tardi. Nella corsa contro il fottuto tempo vinceva sempre lui. In particolare a Ballerini piaceva quando colpiva i piatti di taglio. Lo trovava estremamente cool. E poi quello sguardo che aveva poco prima che il fendente andasse a segno. La faccia gli si contorceva, gli passavano come delle scosse elettriche quando credeva di non arrivarci. Poi, quando ce la faceva, si calmava. Sorrideva da un lato solo della bocca e stringeva gli occhi in una fessura. Come per mettere meglio a fuoco. Ballerini non aveva mai pensato che la metrica potesse essere così emozionante. Ma cazzo quando Rampino suonava era in uno stato di perenne eccitazione. Lì dentro era chiaramente l’unico musicista al suo livello.
– Siamo stati molto bravi. Sì, proprio bravi.
Un lungo braccio bianco gli avvinghiò la pancia. Una figura enorme si alzò dietro di lui. Avvicinò il volto al suo e lo baciò sulla tempia. Aveva grandi occhi gialli, i capelli erano grassi serpenti lattescenti. Il Mostro lo baciò ancora, lo baciò sull’orecchio e, dentro quelle fauci Rampino sentì il ticchettio dell’orologio diabolico.
– Uno-due-tre-quattro. Uno-due-tre-quattro –. Sentiva gli ingranaggi muoversi dentro al corpo del Mostro. Il fiato caldo che gli accarezzava il collo. Come un vapore dolciastro e nauseante.
Si abbandonò alla stretta del suo abbraccio. Chiuse gli occhi e iniziò a contare. Se avesse contato abbastanza forse l’altro sarebbe andato via. Se solo avesse risolto il codice, era sicuro che l’orologio avrebbe smesso di tormentarlo. E se fosse andato via davvero? Rabbrividì.
– Non smettere mai di contare – gli sussurrò allegramente il Mostro.
Rampino iniziò a muovere febbrilmente le mani. Suonava note fantasma. Gli occhi nel vuoto e la fronte sudata.
I ragazzi lo guardavano. Dall’altro lato del vetro.
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Dario Valentini è nato a Padova nel 1993. Ha pubblicato racconti per L’Indiscreto, Sugarpulp, Nazione Indiana et al.