Cologno

di Il Mondo o Niente

di Jacopo Napolitano

Cologno aveva usato una parola che a noi in bocca non ci sapeva stare, non a noi ragazzetti che ancora guardavamo il metro e trenta come traguardo irraggiungibile, nonostante ci tenessimo sollevati sulle punte delle nostre Nike Shox ricevute come regalo della prima comunione. Provavamo a dirla, ma quella parola si impastriccava tra gli incisivi, ad alcuni si attaccava addirittura all’apparecchio sul palato insieme ai resti dei plumcake che ci rifilavano a merenda, oppure ci usciva tutta storta, e quei piccoli eroi fra di noi che ce la facevano a dirla tutta intera, si vergognavano subito e si guardavano veloci alle spalle, impauriti di trovarci la mamma.

«Questo è un preservativo».

Non lo era, ovviamente, ma per anni nessuno di noi è mai riuscito a usare il verbo preservare, anche nei contesti che lo avrebbe richiesto, senza esprimere almeno un leggerissimo rossore sulle guance, sicuramente nessuno senza far riaffiorare nella mente la faccetta di Cologno, con la sua guancia sinistra butterata di brufoli e il cranio rapato, e le aule strette della 4°A della scuola elementare Sciviero, e tutte le nostre teste a cerchio sopra la mano aperta di Cologno che ci offriva semplicemente un anello da usare come portachiavi.

Anni dopo, quando Cologno se ne stava finalmente buono dentro la sua bara e noi tutti attorno arredati con mogli, figli e pochi capelli, mentre il prete recitava un’omelia con il pilota automatico – chissà se sapeva che Cologno, in questa chiesa, aveva pisciato nella cassetta delle offerte perché all’acquasantiera non ci arrivava, chissà se sapeva che l’ultima cosa che Cologno avrebbe voluto era un funerale nel suo paese d’infanzia –, tra le varie formule mnemoniche sparate a raffica ci infilò pure un «che Dio preservi la sua anima nel regno dei cieli».. Le nostre facce si accesero di rosso, qualcuno fece sgattaiolare dalla bocca una risatina, insomma, a tutti ci venne in mente quel giorno di scuola, quando Cologno ci spiegava che troia si poteva dire perché bastava giustificarsi dicendo che s’intendeva citare la città, non le puttane, e noi tutti dietro a rispondere che putt. non si dice, che si poteva dire solo fino a lì, fino a putt., non oltre. A tutti ci venne in mente che quel giorno Cologno ci stava parlando di puttane e troie perché in classe aveva portato un preservativo che in realtà era soltanto un portachiavi, un cerchietto metallico, camuffato a segreto inconfessabile della vita. Grazie a Cologno adesso sapevamo tutti che con le putt. bisognava sempre usare un preservativo/portachiavi.

Cologno non si chiamava veramente Cologno ma ci aveva detto lui di chiamarlo Cologno anche se il suo nome era Andrea Moschetti. Era quasi a metà dell’elenco, sul registro di classe. Non abitava a Cologno, tutt’altro, era più dalle parti di Monza, vicino all’Arco Spedizioni e alla Candy, oltre il ponte sull’A4. Diceva che aveva scelto Cologno come nome non perché Cologno era il luogo dal quale veniva, ma perché era il luogo da cui voleva andarsene. Noi non capivamo. Abitavamo a Brugherio, non a Cologno. A Cologno c’era la metro e c’erano anche le scuole superiori, quelle dove andavano i ragazzi che prendevano il pullman davanti a scuola e che la mattina seminavano la fermata di mozziconi di sigaretta: quelli che potevano indossare lo zaino della Eastpak. Durante un intervallo in cui Cologno se ne stava rannicchiato a massaggiarsi la mascella, uno di noi lo chiamò Monza. Gli disse «Ehy, Monza, cosa fai lì da solo?», allora Cologno gli ruppe un mignolo ed entrambi gli incisivi. Mentre quello che lo aveva chiamato Monza, piangendo, stava cercando per terra i pezzettini bianchi dei suoi denti, Cologno andò a chiamare le maestre. Disse: «Francesco è inciampato da solo, in giardino». Nessuno di noi ebbe il coraggio di contraddirlo: in fondo Cologno suonava molto meglio di Monza.

Pensavamo tutti di odiare Cologno, pensavamo tutti di essere migliori di Cologno, ma quando tirava fuori il pacchetto di sigarette allungavamo tutti il collo rimpiangendo di non essere giraffe per poterci vedere meglio: si creava sempre un muro di nuche che escludevano gli sguardi esterni. Come con il preservativo: Cologno ci introduceva ai misteri del mondo degli adulti, di quelli che calzavano dal quaranta in su. Cologno aveva sempre qualcosa in tasca ma non aveva mai soldi. Diceva che li doveva mettere da parte per quando se ne andava. A noi invece ci piaceva spenderli: prendevamo il gelato Magnum alle nocciole o il Winner Taco in Villa Fiorita, al chioschetto, con i soldi che ci dava la nonna dopo il pranzo della domenica. Alcuni di noi ricevevano addirittura delle banconote: era con quelle che poi prendevamo anche la lattina di Coca.

Cologno non aveva mai i soldi ma arrivava sempre con il gelato della Coop, quello ricoperto alle nocciole. Rubava il pacco intero, anche se poi ne mangiava solo uno. Diceva che se lo infilava dentro lo zaino o sotto la maglietta e le cassiere del Santini facevano finta di non vederlo perché una volta l’omino della sicurezza lo aveva beccato ma Cologno gli aveva mollato un calcio sugli stinchi ed era scappato. Peccato che non c’eravamo a vederlo, quella volta. Faceva un sacco di cose che nessuno di noi vedeva.

Cologno arrivava sempre in ritardo e se ne andava via per primo, dicendo che doveva uscire con delle tipe e andare a salutare altra gente. Non diceva mai i nomi. Cologno non aveva l’incisivo destro e il canino affianco perché suo padre glielo aveva rotto spaccandogli una chitarra in testa quando aveva acceso una sigaretta, nel salotto di casa sua. Cologno parlava solo di suo padre, mai di sua madre perché diceva che sua madre non si doveva toccare. Nessuno di noi capiva come avremmo mai potuto toccarla se non sapevamo neanche che faccia avesse, e poi non andavamo mica in giro a toccare la gente. Provavamo a spiegarlo a Cologno, ogni volta, ma lui diceva che eravamo scem. Anche quella parola, noi, potevamo dirla sono fino a lì, fino a scem. Cologno diceva che aveva la Playstation truccata con tutti i giochi, diceva che c’era un livello segreto di Assassin’s Creed in cui si usavano le pistole, diceva che voleva andarsene lontano da questo posto di merd., magari a Londra dove lavorava suo fratello. Cologno aveva, di Londra, la più alta stima. A noi non dispiaceva la nostra città di merd., soprattutto quando arrivava maggio.

Maggio era per noi pantaloncini corti e bicicletta. Si pedalava, imparando ad andare senza mani e facendo le penne. Potevamo uscire, dopo scuola, buttando sempre un occhio al cielo per controllare che fosse ancora bello terso, e quando iniziava a vellutarsi di arancione si doveva inforcare i pedali e farsi trovare a casa. Erano giorni pieni di quel particolato scaricato dalle graminacee e altre piante che solo le mamme si ricordavano per noi, particolato vigliacco perché si infilava dentro i nasi di alcuni e li faceva starnutire. Ci ritrovavamo sotto l’ulivo della piazza Roma, quello attaccato alla chiesa San Bartolomeo.

In quei pomeriggi d’infanzia, anche se era un’infanzia che ci stava ormai troppo stretta ma non era ancora lontana abbastanza da non potere indossare le canottiere o farsi chiamare ragazzo, in uno di quei pomeriggi in cui l’infanzia ci andava stretta e le canottiere ci proteggevano dal mal di pancia, ce ne stavamo in calzoni corti e tenevamo le stringhe delle scarpe slacciate. Ce ne stavamo a mollo nella piazza a guardare l’ombra della chiesa che si allungava sui sampietrini e fagocitava pigramente la fontana, avvicinandosi all’ora in cui saremmo dovuti tornare tutti a casa. Cologno comparve, in uno di questi pomeriggi, in bicicletta e senza canottiera, e ci chiese di venire a vederlo mentre se ne andava.

Se ne andò come un salto che tutti noi credemmo impossibile. Cologno si girò a salutarci e ci vide tutti stretti a semicerchio, a chiuderlo contro la recinzione, con i nostri occhi sgranati che erano insieme un augurio e un malocchio. Si grattò la nuca rapata e ci salutò dandoci dei figli di putt., ridendo. Con la mano destra si issò, sembrava leggerissimo, le sue ossa sembravano cave, e ci lasciò lì ad accompagnarlo con lo sguardo mentre si gettava dall’altra parte della recinzione, giù verso una caduta di sette o otto metri. Rimanemmo indietro, lì per lì stupefatti per quel balzo. L’aveva fatto veramente. S’era buttato in tangenziale. S’è buttato in tangenziale est! Ma sarà morto? Ci schiacciammo contro la grata per guardare giù e mentre cercavamo con una certa acquolina il cadavere di Cologno, quello se ne stava in groppa a un camion a sventolare le mani. Il camion se lo portò via.

La bocca ci si riempì di insulti, pescammo parole che avevamo sentito dai nostri genitori riversare dentro le cornette mentre digrignavano i denti, parole che non avremmo dovuto sapere nonostante gli insegnamenti di Cologno e che non avremmo dovuto assolutamente ripetere, sicuramente non tutte intere. E gliele lanciammo tutte, tutte contro Cologno, sperando che lo prendessero in faccia: ce ne eravamo accorti, tutti insieme, che Cologno ci aveva lasciato indietro.

–––

Autore: Jacopo Napolitano. Sono nato nel 1995. Ho fatto il liceo classico e mi sono laureato alla magistrale in lettere moderne alla Statale di Milano, nell’aprile 2020, discutendo una tesi su Martha Nussbaum, l’immaginazione letteraria e la fiction. Nel frattempo, ho seguito un corso di sceneggiatura per fumetti alla Scuola del fumetto di Milano. Adesso insegno italiano in un liceo a Como. Domani (16 settembre) iniziamo i Promessi Sposi. Alcuni miei racconti sono apparsi su Nazione Indiana (La mia madre), Coye (Loop, Come sono fredde tu tremi) e Cedro (Adesso!).

[Immagine di copertina di Francesco Fornasieri]

Questo sito fa uso di cookie per migliorare l’esperienza di navigazione degli utenti. Puoi conoscere i dettagli consultando la nostra privacy policy. Accetto Leggi tutto

Privacy & Cookies Policy