Color and Light, Sally Rooney, The New Yorker, 2019
Era il giugno del 2019 ed io leggevo in ritardo i New Yorker dei mesi precedenti: ero arrivata al 18 marzo. Quasi sempre mi butto, per prima cosa, sulla sezione fiction ed è stato così che mi sono imbattuta in Sally Rooney, già conosciuta, al tempo, dai più; i più tra quelli che leggono, almeno. Beh, comunque, c’è che io mi continuo ad ostinare, nonostante la mostruosa abbondanza di informazioni ormai reperibili in rete, a non voler sapere molto di un’opera e ancor meno di un autore prima di averne letto almeno un po’ – non è nemmeno detto che voglia saperne molto di più dopo, di un testo, al di là del testo stesso, a dirla tutta, ma quantomeno ammetto la possibilità; in ogni modo, cerchiamo di non divagare. Della Rooney, dicevamo, così come di questo suo racconto, Color and light, con una splendida illustrazione a corredo, non sapevo assolutamente nulla: mi sono quindi tuffata nella lettura in quella che è, per me, la miglior disposizione possibile.
(Come sarebbe stato imbattersi – tanto per tornare sul New Yorker, alla voce “fiction” – in un racconto di un autore mai sentito prima, dal misterioso titolo A Perfect Day for Bananafish – ma ci pensate? Uhm, pescibanana? Ma che è questa roba? Chi sarà questo… Jerome David Salinger? Bah, vediamo un po’. Che effetto ci avrebbe fatto, che effetto ha fatto, allora? Leggere uno dei più grandi racconti al mondo senza saperlo, voglio dire. Ci pensate? Io lo faccio spesso. Credo sarebbe stato fantastico e talmente diverso, direi lontano anni luce, dal leggerlo come lo abbiamo poi fatto noi decenni dopo – in una raccolta Einaudi, tradotto da Fruttero, letto dopo Il giovane Holden, dopo aver appreso aneddoti su J. D., cercati o no, fino alla nausea. È così che avrei voluto leggerlo, è così che avrei voluto scoprire Salinger, ma soprattutto quel racconto: senza saperne altro che quelle geniali pagine stampate.)
Mi sono tuffata nella lettura, dicevamo, ed ecco, già dalla quarta riga, comparire questi dialoghi: secchi, densi, a tratti sarcastici. Sono gli scambi verbali a buttarti subito là, in mezzo ai personaggi: sei in quella macchina assieme a loro. Tra un dialogo e l’altro, brevi descrizioni, vere e proprie pennellate di psicologie, più che di immagini o di azioni. Non ve lo sto a raccontare, quel che succede, ché non si fa; poi non è che succeda molto, in realtà. Vi dirò solo che in questo racconto ci sono due protagonisti che, in dialoghi serrati, in rimandi che somigliano a incontri di ping pong, sono come pianeti che, ciascuno impegnato a percorrere la sua orbita, si ritrovano per un attimo, per un incontro, abbastanza vicini da comunicare, parlarsi, perfino, in parte, capirsi; restando però pianeti diversi, non abbandonando né modificando le proprie orbite, che li allontaneranno poi di nuovo, come è nell’ordine delle cose.
Ecco, letto questo, ho capito – non mi capita spesso – più di una cosa: che avrei cercato in rete questa Sally Rooney, che avrei letto tutto ciò che di lei avrei potuto reperire, infine che, nei miei tentativi di scrittura, sarebbero stati proprio questi dialoghi la mia ispirazione, che avrei scritto racconti sulla base di dialoghi simili. Se mai mi fosse riuscito! Il resto – la mia scoperta che la Rooney è un’irlandese che ha esattamente dieci anni in meno di me, che è marxista, che è parimenti considerata cool e sopravvalutata da alcuni sottoinsiemi di persone, che questi sottoinsiemi hanno un’intersezione – mi spiace un po’di averlo scoperto, vi dico la verità.
[Immagine di copertina: Spring to mind, Malika Favre, The New Yorker, 11 marzo 2019].