Crocevia di punti morti. Quattro anime nel Pozzo, Matteo Grilli, Effequ, 2020
Crocevia di punti morti è un horror, un romanzo di formazione inverso, un viaggio dell’eroe fermo e al contrario: inizia da quella che doveva essere la fine e finisce con le origini che sono la fine. E comunque si muove. Ma no, non nel senso che la fine è l’inizio e l’eroe è un non eroe: proprio no. Matteo Grilli esordisce con un capolavoro che, tra i suoi meriti, ha quello di parlare una lingua tutta sua. Sfugge alle categorie di genere, le convenzioni letterarie, le allegorie, le metafore, le idee vecchie e stantie di quello che dovrebbe essere un romanzo generazionale. Ha il movimento e l’anima dello shitposting (come è stato spiegato brillantemente qui): le conversazioni che deragliano su internet, iniziano con il sogno fatto la notte prima e poi stronzate e il meme a caso, e poi le cose serie e di nuovo stronzate, e Bill Gates, il 5G, l’ultima teoria complottista e quella della relatività – e cosa c’entra la relatività?
Grilli segue lo stesso ritmo, la stessa fluidità, la stessa camaleontica capacità di inserirsi negli interstizi dei pensieri più assurdi, delle emozioni più sbagliate, più rotte e più vere, per poi cambiare, diventare un mostro, o un angelo, e uscire come un pensiero compiuto, un ragionamento logico, o illogico, o entrambe le cose o non importa. Perché niente importa. È tutto questo e anche no, perché c’è anche lirica, e orrore, e bestemmia, e poesia: si può solo leggere per capire. Una lingua unica, storta ma cristallina, spezzata ma fluida, ferita ma in pace. Assolutamente nuova eppure misteriosamente familiare; riecheggiano, forse, i grandi maestri del genere (Stephen King in primis; i riferimenti a IT sono espliciti) e chissà, le stronzate che scriviamo su Facebook. Mai di maniera, mai compiaciuto.
Grilli passa da immagini taglienti e affilate ad atmosfere rarefatte e nebulose, da descrizioni realistiche e perturbanti a flussi di coscienza che si perdono eppure no: tengono sempre per mano. Il linguaggio cambia, lo stile muta, ma Grilli è sempre riconoscibile: è un rettile mostruoso che cambia e resta uguale, che si nasconde e si fa vedere, che nel suo ritmo da mitragliatrice riesce a stare in silenzio e dare voce ai personaggi. E mentre Celeste, Massimo, Leonardo e K – le quattro anime del libro – parlano con il loro linguaggio e si rendono riconoscibili, tra le righe si sente il rantolo del mostro, il sibilo del rettile. Ed è così che arriva l’anima del romanzo: l’anima di una generazione.
Banalizzando, è la storia di Celeste che vive di rapporti falliti, esami non dati, “ingoia lamette di ricordi luminosissimi” della provincia in cui è nata – “Il Pozzo” – da cui è fuggita perché le stava stretta e da cui ritorna perché fuori non sa stare. Di Massimo, sceneggiatore di serie TV che da Roma torna al Pozzo perché boh, è un “lupo testardo, suicida e narcisista” che sta male e si sente fallito perché sì, è fallito e “sa che non scriverà mai niente che arrivi neanche lontanamente alle cose che ama, e gli va bene così”. O forse no, non gli va bene così: solo non vale niente, e lo sa. È la storia di Leonardo, che è infestato dai fantasmi, che ha siglato un patto col terrore di IT, che si ripete la promessa dei Perdenti “se te ne andrai e non ci vedremo più, ogni volta che tornerai qui ti ricorderai di me”. Che da Milano torna al Pozzo perché “osserva gli schizzi di mappe del Pozzo tracciati nei suoi diari deliranti (…) [e] sente di nuovo l’odore della palude, dei fiori marci del cimitero. Il Pozzo gli parla”. Ci sono loro e c’è K, che è uno spirito, o una carcassa, una spora o chi cazzo lo sa. Riposa lungo la Ferita che taglia il Pozzo (il fiume del paese) e parla come lei: le sue parole sono flussi di coscienza senza virgole, senza punti; stronzate, orrori, discussioni senza senso e verità rivelate: bambini perforati da trapani, la tempia trivellata, e Tau, il drago che è nato morto, vive sotto il pozzo e K è la sua spora, il suo detrito, “diciamo che sono stato grattato via da quella carcassa perché Tau è morto da boh che cazzo che ne so (…) no cioè assurdo si conserva benissimo ma da quello che so ogni tanto emerge qualcosa da lui”.
L’anima di Crocevia di punti morti è quella di una generazione ferita, fallita e sanguinolenta. La generazione di chi è nato nella seconda metà degli anni 80 ed è cresciuto in luoghi orrendi, piccoli e provinciali. Di chi è stato traumatizzato da IT, da 7ven; è cresciuto con i videogame e le videocassette e ora li ricerca come oggetti senza senso che feriscono e riempiono. Di chi ha mandato a fanculo il posto piccolo e orribile in cui è nato e ha misurato il mondo fuori con le sue case piccole, le sue vie strette, i suoi fantasmi storti e i suoi giochi inutili.
C’è una generazione ma anche qualcosa di più: il rettile che sibila dietro la voce dei personaggi ha il respiro rauco e spaventoso dell’universale, dell’eterno. E parla, forse, della nostalgia feroce per i luoghi che odi e i tempi che muoiono; per i vecchi videogame che ricordi e per la terra da cui vieni. La terra che detesti e disprezzi eppure ti appartiene, ti accoglie. Perché tu non vali niente e lei lo sa: e va bene così.
“La gola di Massimo è chiusa perché sta per tornare nel Pozzo. Dove il tempo esiste, oh sì, esiste eccome, il fatto che sia nascosto non vuol dire che non ci sia. E quel tempo ha fame di te. Un tempo mostruoso che si dedica a ogni singola persona del Pozzo, e la rende eterna”.
[Foto di copertina: Matteo Grilli]