“Il fatalismo mi ha salvato dalle delusioni dell’adolescenza e dalle illusioni delle aspirazioni”
Raffaele Alberto Ventura
di Federico D’Onofrio
È giunto il tempo che anche questo blog, un prodotto tipico di quello che Guia Soncini chiama il “volontariato culturale”, dedichi il giusto spazio a quello che forse è il prodotto migliore del volontariato culturale, il fiore dell’agave dell’era del blog, ovvero Raffaele Alberto Ventura. Ventura è passato attraverso i blog, la radio universitaria, i samizdat venduti in proprio e ora possiamo quasi dire che ce l’abbia fatta, che faccia parte dell’establishment culturale, è diventato il più grande intellettuale dell’internet italiano dopo Diego Fusaro.
Inizialmente, avrei voluto scrivere una recensione classica della Teoria della classe disagiata, ma sarebbe stato inopportuno farlo per un libro che ho in gran parte visto formarsi, di cui ho riletto e commentato tanti pezzi via via che uscivano sotto forma di post o di articolo. E poi ormai le recensioni sono talmente tante che non vale la pena aggiungerne una nuova. Del resto, chi volesse avere un’idea dei limiti del libro, può sempre leggersi quel che ha scritto Valerio Mattioli. Ventura stesso ha raccolto su FB i commenti più negativi al suo libro. Hanno tutti qualcosa di giusto, ma allo stesso mancano il segno. È vero, la Teoria della classe disagiata è un libro che trasforma le vicende esistenziali di un ristretto gruppo di privilegiati in dramma collettivo. È vero, l’istruzione non è solo un bene posizionale e può avere un impatto sulla produttività dei fattori. E’ vero, Ventura soffre di ipercitazionismo, non è un economista, non lavora coi dati e non mette le note a piè di pagina. Ma tutto questo non è decisivo. Il libro è diverso, procede per paradossi dai quali non è così semplice liberarsi, neppure esaminando statistiche e costruendo modelli economici. Non sostituisce i rapporti del FMI o dell’NBER sull’impatto macroeconomico dell’istruzione, ma ci accompagna nella lettura di quei rapporti. Del resto, anche gli economisti si sono accorti che gli anni di istruzione non hanno una relazione tanto univoca con la crescita del PIL.
Inizialmente, avrei voluto scrivere una recensione classica della Teoria della classe disagiata, ma sarebbe stato inopportuno farlo per un libro che ho in gran parte visto formarsi, di cui ho riletto e commentato tanti pezzi via via che uscivano sotto forma di post o di articolo. E poi ormai le recensioni sono talmente tante che non vale la pena aggiungerne una nuova. Del resto, chi volesse avere un’idea dei limiti del libro, può sempre leggersi quel che ha scritto Valerio Mattioli. Ventura stesso ha raccolto su FB i commenti più negativi al suo libro. Hanno tutti qualcosa di giusto, ma allo stesso mancano il segno. E’ vero, la Teoria della classe disagiata è un libro che trasforma le vicende esistenziali di un ristretto gruppo di privilegiati in dramma collettivo. E’ vero, l’istruzione non è solo un bene posizionale e può avere un impatto sulla produttività dei fattori. E’ vero, Ventura soffre di ipercitazionismo, non è un economista, non lavora coi dati e non mette le note a piè di pagina. Ma tutto questo non è decisivo. Il libro è diverso, procede per paradossi dai quali non è così semplice liberarsi, neppure esaminando statistiche e costruendo modelli economici. Non sostituisce i rapporti del FMI o dell’NBER sull’impatto macroeconomico dell’istruzione, ma ci accompagna nella lettura di quei rapporti. Del resto, anche gli economisti si sono accorti che gli anni di istruzione non hanno una relazione tanto univoca con la crescita del PIL.
I paradossi, le citazioni, i sofismi persino, di cui è fatta la Teoria della classe disagiata raccontano piuttosto una storia, la storia dell’autore e dei suoi amici, ma è proprio così che paradossi, citazioni e sofismi mettono in crisi verità che pensavamo assodate e forse non lo sono. La Teoria della classe disagiata non offre soluzioni convincenti ai problemi che affronta ed è piena di ambiguità e ambivalenze che sono anche ambiguità e ambivalenze dell’autore stesso. Ventura prende la sua storia personale e ne fa un caso, un simbolo, di una storia collettiva con generalizzazioni spesso azzardate, ma così ci coinvolge nella sua personale ricerca in corso, nel costante e talvolta disturbante sforzo di interpretare la propria vicenda e attribuirle un significato paradigmatico. Penso che sia utile quindi, piuttosto che una analizzare il libro, provare ad abbozzare una specie di storia intellettuale di Ventura e forse, in parte, della sua generazione.
Zone temporaneamente apocalittiche
Dodici anni fa, nel 2005, nel mondo di prima della Grande Crisi, nell’età dell’oro dei blog italiani, apriva eschaton.it. Ma prima, c’era Violent Unknown Event, aperto nel 2003. I nomi di entrambi i blog implicano lo shock, la rottura violenta con l’ordinario. In effetti la rottura e la violenza che si celano dietro la società contemporanea sono rimasti temi fondamentali del pensiero di Ventura, ma la loro centralità era – se possibile – ancora maggiore in quegli anni, come l’eco della gigantesca esplosione mediatica che fu l’undici settembre 2001. Il nostro, in quegli anni studente di filosofia, era affascinato da Hobbes, dalla segreta minaccia di un improvviso ritorno alla stato di natura che si cela dietro l’apparente sicurezza della nostra società. Ventura, seguendo una tradizione interpretativa che passa da Carl Schmitt, a Walter Benjamin, a Guy Debord, vedeva nella mise-en-abîme caratteristica della letteratura e del teatro barocchi, la messa in scena del carattere artificiale di un ordine politico costantemente minacciato ma anche – un tema che diventerà sempre più significativo nei suoi scritti – un ordine la cui ricostruzione debba essere costantemente garantita.
Nel 2003, mentre i neo-con statunitensi invadevano l’Iraq, il futuro autore della Classe Disagiata contrapponeva alla rappresentazione rassicurante del potere in Europa e negli Stati Uniti, una rappresentazione espansiva, protesa verso sforzi di nation-building, situazioni rivoluzionarie dai contorni imprecisati.
“Allo ‘spettacolo’ si deve opporre la ‘situazione’, ovvero la produzione di rappresentazioni nelle quali non esiste separazione tra chi produce e chi assiste (subisce?), ma tutti producono e assistono allo stesso tempo.
Nella prospettiva di Debord si combatte il mondo come rappresentazione alienante determinata dal potere, così metaforicamente simile al teatro secondo Rousseau. E le feste che il ginevrino proponeva, cosa sono se non “situazioni”? Realizzate poi sotto lo stato giacobino come ‘feste rivoluzionarie’.”
Non sembra che Ventura fosse particolarmente persuaso dei fini della rivolta. Non si ha l’impressione che attendesse la liberazione da un ordine oppressivo. Ad interessarlo sembra che fosse piuttosto la negatività distruttiva della situazione in quanto elemento ineliminabile di ogni struttura sociale. Né la spettacolare distruzione delle Torri Gemelle nel 2001, né la distruzione tec(h)no dei black bloc o la rivolta disperata delle banlieues francesi alla fine del 2005 – tre modi diversi in cui la rappresentazione rassicurante del potere era sovvertita – offrivano del resto alcun elemento costruttivo a cui appigliarsi. In fondo, poi, come in un vero dramma barocco, tanto una pirotecnica rivolta popolare quanto un complotto oscuro, come il caso Telekom Serbia, potevano servire a dimostrare i limiti del potere. Licio Gelli, con la sua capacità di trasformare il reale in teatro, sembrava offrire a Ventura – ironicamente, certo, ma significativamente – un modello per l’azione, in quanto sceneggiatore della tragicommedia del reale:
“si delinea una figura affascinante: quella dello sceneggiatore di realtà, che incide le sue trame sul corpo caldo della Storia. Magari coinvolto con l’occulto, a metà strada tra tornaconti politici e allucinanti visioni del destino universale. Ho trovato cosa voglio fare da grande”.
Violent Unknown Event testimonia già nel 2003 la collaborazione con la Fondazione Elia Spallanzi, dedicata al noto scrittore apocrifo. Questa collaborazione era mirata alla sovversione, ma, appunto, ad una sovversione letteraria, si proponeva di confondere, almeno su internet, la letteratura e la vita creando testi apocrifi, biografie e bibliografie inventate, piccole zone temporaneamente autonome dell’internet. Partecipava in questo dello stesso ottimismo un po’ rivoluzionario ma senza perdere la giocosità di Hakim Bey o della Guerra Psichedelica 2.0.
Però a Ventura stava stretta questa sovversione letteraria. Eschaton era uno scienziato dell’apocalisse, non un costruttore di utopie, non si limitava a osservare la possibilità di eventi violenti non identificati, non poteva limitarsi a parlare di Gelli e don Chisciotte, della follia della vita e di quella della letteratura. In fondo, lui voleva distruggere tutto. Se l’ordine era una fragile costruzione artificiale, perché non sposare il disordine, almeno a parole? Il documento più affascinante di questa fase del pensiero di Ventura è l’indefinibile Le ultime avventure di Gummo, un testo sfortunatamente esaurito e ormai praticamente irreperibile, ma, ovviamente, un libro di culto fra gli antichi frequentatori di splinder.
Uscito nel 2006, Gummo è praticamente l’atto finale di Violent Unknown Event. È un libro sull’apocalisse, un romanzo picaresco scritto da un teologo gnostico che ha letto troppo topolino. E naturalmente è un libro sconclusionato. Ventura vi racconta la storia di Gummo, il cui proposito è portare la fine del mondo, e come Gummo resti irretito nel mondo che vuole distruggere a causa del complotto ordito ai suoi danni da Cristina, una specie di Sofia gnostica al contrario. Per i teologi gnostici l’anima umana era una scintilla divina precitata attraverso le sfere celesti fino sulla terra. Qui l’anima si specchiava nell’acqua fangosa e si innamorava della propria immagine riflessa, finendo per restare imprigionata nella materialità e negli amori carnali, fino all’incontro con Sofia, una meretrice capace di risvegliare nell’anima il ricordo del dio smarrito e quindi di mettere in moto la remeatio, il processo per cui l’anima si sarebbe liberata del mondo e sarebbe tornata alla casa d’origine. In Gummo il mito è rovesciato e diventa il racconto di una nascita-nel-mondo. Mentre Sofia, infatti, permetteva all’anima prigioniera della materia di liberarsi dal dominio degli arconti, la Cristina di Gummo lo spinge nel mondo dove lo imprigiona e per sventarne i piani distruttivi. L’apocalisse liberatoria è così rimandata.
Eschaton.it, il secondo blog di Ventura (o il terzo? O il quarto? Il Ventura di questo periodo, insieme alla misteriosa Fondazione Spallanzani, giocava sulla moltiplicazione e sulla finzione, sul depistaggio), nasce dal fallimento dei piani escatologici di Gummo. Non tanto in termini cronologici quanto in termini concettuali. Abbastanza rapidamente eschaton.it abbandona la violenza senza volto di Violent Unknown Event per concentrarsi sull’analisi dei processi di costruzione di una società industriale attraverso la tecnologia e la burocratizzazione del mondo. Rimane l’ispirazione vagamente situazionista, rimangono i riferimenti a Debord, ma allo stesso emerge una critica forte di Debord e del Sessantotto francese come funzionali al sistema, parte di un passaggio epocale da produzione materiale a consumi immateriali. La letteratura non serve più per dimostrare l’artificialità dell’ordine sociale ma per mostrare la realtà delle contraddizioni dell’ordine sociale. E’ da qui che comincia la scrittura della Teoria della Classe Disagiata, da un nuovo modo di fare i conti col reale.
La cultura nell’era della sua distruttibilità tecnica
La riflessione di Ventura nasceva dagli inserti culturali, dai blog, dal fumetto, con la consapevolezza che tutte le forme della cultura vivano e muoiano. Rapidamente, però, ha cominciato ad abbracciare aree sempre più vaste della società. Le leggi dell’economia e i paradossi che esse nascondono sono diventati il cuore delle nuove preoccupazioni. Ventura ha finito così per concentrarsi sulle leggi ineluttabili della decadenza di una società, con la stessa volontà di trovare “ferree leggi” che poteva animare un economista classico. È così che il blog è diventato un catalogo delle contraddizioni grottesche che affliggono la “società della conoscenza”, un catalogo messo insieme col gusto di épater les bourgeois e l’estrema vanità di voler sempre sorprendere.
Nel frattempo, Ventura ha rinunciato ad una carriera all’università, dove voleva studiare il teatro inglese dell’età moderna e la censura, ed è entrato nel rutilante mondo del marketing. È forse per questo che ha iniziato ad preoccuparsi per la strada senza uscita imboccata dai lavoratori della cultura e forse dalla cultura stessa. Il suo grande tema è diventato allora quello della scelta, un tema classicissimo: lavoro o creatività, agio o disagio? Nella Teoria della classe disagiata questo tema ha assunto dimensioni epiche con la figura di Kafta, l’impiegato che sceglie la scrittura “a costo di ammalarsi e morire,” in cui possiamo quasi identificare l’insonne Raffaele Alberto che scrive nel poco tempo che gli lascia il suo lavoro impiegatizio.
Ma Ventura non risolve il dilemma, perché è fin troppo consapevole, fin dai tempi in cui studiava Guy Debord, della natura economica della vita culturale. Se per lui, sul piano personale, la produzione culturale è un ozio operoso dal quale attendersi una cura contro la quotidiana alienazione del lavoro, egli è consapevole che a livello sociale la produzione culturale è produzione, anzi, ogni produzione è produzione culturale. Ed è per questo che progressivamente – come gli ha giustamente rimproverato Valerio Mattioli nella già citata recensione – Ventura finisce per estendere la sua analisi dell’asfissia del lavoro culturale alla società intera. Egli sa di abitare la coda lunga della produzione culturale: i suoi post disseminati gratuitamente in rete sono un lusso vanesio il cui vero pubblico è in fondo costituito da lui stesso e dai suoi amici.
Guia Soncini (ricordate la brillante e spiritosa maitresse-à-penser che agli Stati Generali della Cultura del Partito Democratico rimproverava i democrats di non guardare abbastanza la TV?) ha parlato di volontariato culturale per definire (anche) l’ispirata grafomania di Eschaton. In realtà, egli è convinto che in fondo sia così per tutti, per tutti i mestieri, per l’intera società post-fordista. L’immagine della società, per lui, è data dagli artisti presentati da Andrea Diprè, tutti impegnati a sfuggire al proprio destino per diventare Individui. Ma come può reggere una società in cui tutti siano impegnati a distinguersi, a eccellere? È da questo punto di partenza che Ventura ha abbordato i temi della trasmissione della ricchezza per criticare Thomas Piketty e per riscoprire – come si fa ciclicamente – teorie cicliche della decadenza, e in particolare lo storico arabo Ibn Khaldun che espose la teoria per cui la decadenza fosse una conseguenza del succedersi delle generazioni. Del resto la parte forse più brillante della Teoria della Classe Disagiata è proprio dedicata alle teorie generazionale della decadenza: i capitoli in cui cita Goldoni, Molière, Chekov tornando al suo antico amore per il teatro.
Ma l’elemento di maggior forza e di maggior debolezza – probabilmente senza che Eschaton se ne renda conto – è la paura dell’inflazione. Di un’inflazione particolare, ben inteso. Ventura è profondamente spaventato dal keynesismo. Tutta la Teoria della Classe Disagiata è una messa in guardia contro l’eccesso di investimenti in un bene capitale la cui domanda abbiamo fin adesso pensato impossibile da soddisfare: la cultura, l’istruzione, allo stesso tempo bene di investimento e bene di consumo.
Nel 2012, Eschaton scriveva:
“Si dice che l’economia sia la scienza che studia la gestione delle risorse scarse ma invero essa studia qualcosa di ben più insidioso, ovvero l’abbondanza. Perché «produrre troppo» significa anche, necessariamente, «consumare troppo». In effetti, per produrre beni e servizi si impiegano altri beni e servizi, i cosiddetti fattori produttivi. Questi fattori produttivi, si tratta di stabilire come allocarli. Il lavoro culturale è peculiare perché la sua specifica funzione economica è di consumare la ricchezza al fine di offrire uno sbocco alla sovrapproduzione. In un primo tempo, sovrapproduzione di risorse primarie e secondarie, beni, servizi, che verranno consumati dai lavoratori culturali. In un secondo tempo, sovrapproduzione di beni artistici e culturali, che verranno consumati dagli stessi o da altri lavoratori culturali. E infine, sovrapproduzione di lavoratori culturali, che si consumeranno da sé.”
È il rovesciamento di uno dei miti su cui si fonda la nostra teoria economica almeno dagli anni Cinquanta, quello della frontiera infinita. Science, the endless frontier è il titolo di un celeberrimo rapporto inviato nel 1945 al presidente degli Stati Uniti Harry Truman e che portò alla costituzione della National Research Foundation americana. Il titolo suggerisce che, esaurita la frontiera delle risorse materiali, quella che all’origine era una frontiera geografica al di là della quale si stendevano terre vergini, ogni tipo di investimento abbia ritorni marginali decrescenti. Non così la scienza, essa sola capace di spostare una nuova frontiera, quella immateriale del sapere, e senza posa offrire nuove terre vergini, nuovi materiali, nuove e più efficienti tecnologie. Ventura considera, invece, la conoscenza come un bene posizionale, uno dei tanti lussi di cui parla Thorstein Veblen nella sua Teoria della Classa Agiata. La conoscenza sarebbe quindi un potlach distruttivo, un’orgia di consumi di lusso, e non il motore di una società sempre più produttiva. ِÈ la gonna decorata di pizzi e merletti di una signorina veneziana che cerca marito, come ci racconta in questa conferenza TED.
Anche in questo settore si può investire più del desiderabile, condannandosi a livello sociale e a livello individuale all’obsolescenza, al destino del Betamax o dell’Unione Sovietica, attraverso una gigantesca “inflazione” di risorse.
Non è molto interessante chiedersi se Ventura abbia torto o ragione, se faccia o meno l’errore di ridurre l’istruzione a puro segnale, come dicono gli economisti, utile solo a emergere nella bolgia di candidati ad un numero fisso di posti di lavoro, se non sopravvaluti la natura posizionale della cultura rispetto al potere che le nostre conoscenze hanno di migliorare la nostra vita, renderci creativi, dinamici, saggi (e ignoriamo pure il fattore il fattore più importante: sapere è bello). È interessante, piuttosto, la maniera in cui egli ha problematizzato il mito della crescita infinita mostrando in forme nuove la decadenza e l’inaridimento di quelle fonti dalle quali la nostra società si aspetta scaturisca la propria perenne giovinezza: il sapere. Proprio il citazionismo baroccheggiante, l’uso di strumenti epistemici creativi e insoliti – invece dell’applicazione di modelli econometrici o metafore biologistiche – rendono questo libro utile, diverso, capace di far riflettere sui limiti proprio dei modelli econometrici e dell’imperante biologismo dei Peter Turchin o dei Jared Diamond e paradossale prova dell’utilità di un sapere anche umanistico.
Ma nell’arco di questo percorso intellettuale, Ventura ha progressivamente cambiato posizione. E in fondo la Teoria della Classe Disagiata è un libro nato già vecchio, che non sembra più riflettere le preoccupazioni recenti del suo autore. Qualche giorno fa, durante un breve rientro in Italia, mi sono fermato a osservare una pila di copie della TCD in una libreria di Milano. In quel mentre, mi si è avvicinato un passante e mi ha detto: “Compralo! Non te ne pentirai! E poi fate la rivoluzione!” Ma io non credo che “fare la rivoluzione” sia una preoccupazione attuale di Ventura. Non stiamo più parlando di Gummo, l’Anticristo in pectore, ormai è Raffaele Alberto Ventura il nostro autore.
Piuttosto che i violent unknown event, Ventura cerca la pacificazione della società.
Il faut défendre la société
Le stragi di Parigi del 2015 sono state sicuramente un momento di svolta. Si è insistito da più parti, soprattutto in Francia, sui valori dell’illuminismo e dell’universalismo culturale, ripetendo che in essi si poteva trovare una risposta autentica alla violenza del terrorismo. Ventura, però, sembra atterrito proprio dalla natura violenta dell’Illuminismo francese. Nei suo scritti su questi temi, paradossalmente accoppiati, illuminismo e terrorismo, si indovina il desiderio di contestare il conformismo di una certa cultura francese nella quale è stato – in fondo – allevato, di smascherare i miti fondativi della République di oggi. L’eredità dell’Illuminismo avrebbe determinato in Francia il dominio di un modello assimilazionista per cui ogni gruppo immigrato poteva e doveva diventare francese e sciogliersi così nella cittadinanza repubblicana. La crisi di tale modello sarebbe evidente nell’emergere del terrorismo come fattore capace di portare la Francia alla guerra civile. Come scriveva già nel 2010, è la tragedia dello scontro fra una cultura assimilazionista e di una cultura dissimilazionista per necessità:
“Ragionevolissima è la strategia della dissimilazione, là dove si vogliono conservare o instaurare leggi e poteri locali, piccoli feudi, riserve e fortezze. Ragionevolissima é allora la risposta degli stati, ragionevolissimi i genocidi culturali, ragionevolissima l’islamofobia mascherata da laicità. Ecco tutti gli ingredienti per una tragedia.”
Come fermare questa tragedia in marcia? Il nostro ha inizialmente riscoperto Jean Bodin e la forza protettiva della censura. In una prospettiva fortemente influenzata dalla lettura di Carl Schmitt, è sembrato suggerire che uno stato effettivamente neutrale potesse fornire il contesto per la spoliticizzazione dello spazio pubblico come aveva suggerito Bodin all’epoca delle guerre di religione.
Ma Ventura è anche abbastanza profondamente antiautoritario e per lui la spoliticizzazione non ha preso la forma dello Stato assoluto secentesco – quello stesso la cui fragilità era stata messa in evidenza dal dramma barocco – ma da una teoria strampalata ed esotica, la Panarchia. Ha così scritto la prefazione all’antologia di testi panarchici curata dal ticinese Gian Piero de Bellis. Semplificando brutalmente, la panarchia propone di disintegrare il legame fra stato e territorio e ripristinare per ciascuno il diritto di scegliere – entro limiti garantiti e vigilati – la propria legge, lasciando che un pacifico stato di natura prenda il posto del Leviatano hobbesiano ormai incapace di assicurare la pace.
Quanto è distante l’ideale panarchico dalle Zone Temporaneamente Autonome di Hakim Bey che trovavamo all’inizio del percorso intellettuale del Nostro? Nel Ventura di oggi c’è un fortissimo desiderio di ricostruzione delle strutture della società. Nasce così un’analisi del fenomeno del cosiddetto “blocco nero” come enactment giocoso del corteo, un “gameplay sfuggito al controllo”. Dopo aver assimilato gli scontri del primo maggio 2015 a Milano alle TAZ di Bey, su Prismomag, scrive:
“Delimitando fisicamente lo spazio e il tempo di espressione degli antagonisti, disegnando un provvisorio “vuoto” politico al cuore dello spazio urbano, insomma istituendo uno “spazio di gioco” (e poi garantendo ai partecipanti una facile via di fuga per impedire alle conseguenze della performance di ripercuotersi sulla realtà), a Milano le forze dell’ordine hanno creato le condizioni necessarie perché venisse officiato il culto sacrificale dell’impotenza politica: la rappresentazione spettacolare della rivoluzione in forma di gioco di ruolo. Un rito catartico che, al costo di qualche macchina e vetrina, sfoga la rabbia degli oppressi e abbevera il mercato di nuovi simboli da consumare”.
Sono di nuovo gli strumenti di analisi fornita dalla critica del situazionismo, ma questa volta il tono non è curioso, è soprattutto sprezzante. Ma se la rivoluzione è solo un gioco di ruolo, cosa fare? Visto che non si può spaccare tutto, bisogna puntellare l’ordine, difendere la società. Ventura sembra in fondo ricercare una via ragionevole e pacifica che implica innanzitutto la preservazione di determinate strutture del vivere borghese. E’ così che per il referendum costituzionale italiano del 2016, si è espresso con forza per il sì alla riforma renziana e per le elezioni presidenziali francesi è sembrato persuaso che Emmanuel Macron fosse in fondo il male minore. Nel frattempo, prosegue però la sua riflessione sul senso nuovo e la forza prorompente del mercato globale, perché sono le dinamiche economiche a determinare le rappresentazioni più o meno giocose della commedia nella quale recitiamo. E se Ventura legge la società capitalista, a dispetto dei camuffamenti ideologici reaganiani o “neoliberisti”, come una forma di claustrofobico e impersonale governo della produzione, proprio le sue scelte politiche dimostrano quanto sia lontano dall’aver elaborato una pars construens del suo programma post-apocalittico.
In tutto questo, il percorso intellettuale – vorrei dire ideologico – di Ventura, dalla violenza pop e incruenta degli anni Duemila, alla preoccupazione per la guerra civile globale, disegna anche una traiettoria all’interno dell’industria culturale, da un fragile blog a un vendutissimo libro di carta, dalla coda lunga al mainstream. Il blog nel frattempo è cerebralmente morto, si è trasformato in un sito personale dall’encefalogramma piatto. Ventura ormai scrive sui giornali o sulle riviste nelle quali si sono federati i migliori “tenutari” di blog, secondo un processo di merger and acquisition, centralizzazione e razionalizzazione. Per emergere nella massa sterminata di materiale che circola in rete, bisogna integrarsi, associarsi, raggiungere la massa critica che produca le necessarie economie di scala. Eschaton.it, il blog, langue quindi per manifesta debolezza. Il suo animatore ormai si è fatto assorbire, come il deputato comunista di Palombella rossa è ormai “integrato nel sistema”.
L’apocalisse vagheggiata da Gummo si è trasformata nella piccola apocalisse di due genitori trentenni alle prese con la piccola Dalia. Ci resta quindi la speranza che sia lei, Dalia, a immaginare nuove apocalissi per tutti noi.
[L’immagine di copertina è un’illustrazione di István Orosz]