Eduardo Savarese, È tardi!, Wojtek Edizioni, 2021
“Per certe frasi ci vuole solo Maria Callas”: è quello che dice la madre di Eduardo Savarese a proposito di “è tardi!”, le due parole che la Norma dell’omonima opera di Bellini grida contro il suo uomo, che l’ha umiliata e tradita. La stessa frase viene pronunciata anche da Violetta, protagonista de La traviata, quando ormai è in punto di morte, e non a caso questo è anche il titolo che Eduardo Savarese ha scelto per il suo ultimo libro. Qui tratteggia le vicende di sette eroine del melodramma, e a fare da filo conduttore c’è il tema dell’attesa, che l’autore definisce come “nutrito contro ogni ragionevole calcolo del mondo, della storia e della società, contro il rigore ottuso del potere, persino contro chi pretende di volerci del bene, è la potente virtù che le donne del melodramma hanno imparato a proteggere e praticare. La storia del teatro lirico è attraversata da donne che sperano, che amano, che credono, attendendo, cioè tendendo al compimento del loro destino”. Ma il libro non racconta solo di Madama Butterfly che aspetta con una certezza religiosa il suo Pinkerton, o di Elettra che si logora attendendo il fratello che vendicherà la morte del padre. La particolarità di questo testo è che nel tratteggiare la vita di queste donne (e la stessa passione dell’autore per l’opera) Savarese trova l’occasione per soffermarsi su alcuni momenti intimi della propria esistenza, sottolineando il carattere allo stesso tempo unico e universale delle esperienze umane, che sono fatte di amori, speranze, delusioni, e anche attese. Di questo abbiamo parlato con l’autore.
Il libro unisce il saggio al memoir. Accanto alle vicende di questi sette personaggi, tu racconti anche momenti della tua vita. Come è nata l’esigenza di scrivere questo libro, e perché proprio in questa forma?
Eduardo Savarese – Organizzo periodicamente degli incontri alla Feltrinelli di Napoli sull’ascolto dell’opera e un paio di anni fa una persona che era presente mi disse: “perché non scrive queste cose che dice?”. Lì sul momento mi sembrò una proposta un po’ difficile da realizzare perché quando si parla di musica entrano in campo la musicologia, la storia della musica… poi ho vinto abbastanza facilmente questa resistenza perché la scrittura ci consente di scrivere di quello che vogliamo: non ci sono competenze tecniche che non siano quelle della scrittura, del linguaggio della scrittura, del mondo della scrittura. Ho cercato di proporre il racconto dell’opera scegliendo il punto di vista delle donne. Io sono da sempre un appassionato di queste storie e voci femminili, più che di quelle maschili. Ho poi pensato a un filo conduttore e ho scelto quello dell’attesa, un po’ perché in quel momento avevo riascoltato Madama Butterfly, dove questo è molto presente, ma anche perché si tratta di un tema per me molto importante. Poi scrivendo mi è venuto molto naturale intrufolarmi, affacciarmi, ed è una cosa che faccio anche nelle conversazioni che tengo oralmente e che è già accaduta anche in alcuni miei libri precedenti, come Lettera di un omosessuale alla Chiesa di Roma e Il tempo di morire. Mi sembrava che parlare del melodramma mi consentisse di affrontare vicende personali molto intime, perché era coerente che io parlassi di eroine attraversate da passioni incontenibili e poi della mia esperienza.
Perché l’attesa è un tema a te caro?
ES – Sono molto impaziente, voglio fare le cose bene ma in fretta, quindi “è tardi!” è un po’ il mio leitmotiv. Allo stesso tempo riconosco l’importanza di mettersi in ascolto, di farsi attraversare dal tempo, dare spazio al tempo, mollare la presa in modo da ricevere gli altri e il loro mondo. Questo è molto importante per immaginare, per scrivere: è come se dovessi accogliere delle voci, dei movimenti che se sei concentrato sul tuo io razionale perderesti. L’attesa è questo, e rappresenta un approccio spirituale alla vita: non essere tu al centro ma diventare uno strumento attraversato. L’attesa ha a che fare con la pazienza, con la speranza, con la possibilità. C’è sempre una possibilità se ti metti in attesa, anche quando sembra che non ci sia più niente da attendere.
Perché hai scelto proprio la frase “è tardi!” come titolo per il libro?
ES – “È tardi!” è frase che ha a che fare col tempo. È una frase di impazienza, di stanchezza dell’attesa, un po’ anche di ribellione al tempo, ed è una frase molto importante perché ne La traviata e nella Norma sono frasi pregne di espressività. Non sono solo frasi musicali ma anche grandi frasi teatrali: Violetta dice “è tardi!” perché sta per morire di tubercolosi; Norma la pronuncia perché vuole punire il suo amante traditore e quindi non vuole più dargli un tempo, un’occasione, una possibilità. Così è nato questo titolo. Come dico spesso, uno dei privilegi dell’opera è che un po’ ci riporta a quel patrimonio di memorie che almeno io, che sono nato nel ’79, ancora costruivo durante la scuola imparando dei versi, delle poesie che poi non dimentichi più. Con l’opera succede, ma quando sei adulto: ascolti infinite volte alcune opere e memorizzi alcune frasi dei libretti, frasi anche molto semplici. “È tardi!” è proprio una di queste.
Nel libro, accanto alle sette donne che descrivi, ce ne sono altre due che emergono continuamente: tua madre e la Callas, tanto da sembrare loro stesse le protagoniste del proprio melodramma. Come mai questa scelta?
ES – Il libro è stata un’occasione inaspettata di parlare di cose intime, e tra queste c’è anche mia madre. Ho realizzato di avere un debito di riconoscenza perché, anche se lei oggi non è appassionata quanto me, mi ha passato l’amore per certe romanze che le ho sentito cantare. Inoltre mia madre in questo libro rappresenta la donna, la presenza generatrice della vita, della mia vita. Il suo personale melodramma è tratteggiato molto sinteticamente ed è dato dal fatto che è rimasta vedova giovanissima, e poi ha avuto grandi amori appassionati e anche controcorrente, e in questo è lei stessa un’eroina del melodramma. Maria Callas è anch’essa un’eroina perché è stata un’interprete eroica, gigantesca, ma al contempo ha sperimentato grandi amori e laceranti abbandoni. Lei, con la solitudine degli ultimi anni di vita, è diventata un’icona tragica non solo per le eroine che ha cantato ma per il suo stesso destino. Forse se non avesse avuto questo destino non avrebbe cantato in quel modo, e forse lei cantava la sua stessa vita. È inoltre un personaggio unico perché, avendo origini greche, incarna in sé anche la maschera tragica, e questa è una delle ragioni per, cui avendo anche io origini greche, ho ritenuto importante che ci fosse un’eroina che avesse a che fare con il mito greco, cioè Elettra. La Callas non l’ha mai interpretata anche se sarebbe stata una Elettra straordinaria, o anche una straordinaria Clitennestra, perché lei aveva la capacità di interpretare questi ruoli femminili molto ambigui e molto violenti (come Lady Macbeth o Abigail), che non sono assolutamente rassicuranti per il maschio standard, anzi, sono inquietanti. La Callas stessa in fondo è un po’ Violetta e un po’ Norma.
Queste donne sono in qualche modo dei personaggi non conformi perché hanno delle attitudini molto particolari e allo stesso tempo sono profondamente contemporanee. Come ti sei approcciato nel raccontarle?
ES – Questa è una considerazione che condivido ed è un po’ il mio faro quando organizzo le mie guide all’ascolto. Non penso che dobbiamo sforzarci di attualizzare perché questa operazione potrebbe essere anche disonesta, forse anche poco feconda, poiché queste storie hanno in sé una loro eternità, ed è proprio per questo che sono classiche e universali. Ho cercato con la parte di memoir di rispecchiarmi in queste storie, e questo vale molto più dei processi di attualizzazione un po’ forzati. Queste storie, queste parole, questa musica, hanno continuamente la capacità di dirci delle cose che sono mutevoli nel tempo ma che hanno una ricchezza inesauribile. È una cosa che avviene con la grande letteratura, con la grande arte, ha a che fare con le Sacre Scritture: sono testi che hanno sempre qualcosa da dirci. Io amo molto le forme classiche, l’idea che tu possa raccontare il presente attraverso storie che sembrano relegate nel passato o anche confinate in un rito sociale come quello di andare all’opera. Questo è un peccato perché se avessimo l’educazione all’ascolto dell’opera potremmo avere esperienze teatrali condivise, come le si facevano fino agli anni Cinquanta del Novecento.
Oggi l’opera non è così popolare come lo era fino ad alcuni decenni fa. In passato però ci sono stati artisti come la Callas e Pavarotti che hanno aiutato ad avvicinare il grande pubblico al mondo della lirica. Forse sentiamo la mancanza di interpreti come loro?
ES – In realtà questi un po’ ritornati, e penso ad esempio a Jonas Kaufmann o ad Anna Netrebko. Il fatto è che probabilmente non sono voci straordinarie come quelle della Callas o di Pavarotti, perché lì ci sono anche doti naturali fuori dall’ordinario. Forse c’è anche il fatto che in un mondo che è diventato così mercantile in tutti i suoi passaggi, dove tutto passa per le agenzie, per i contratti, dove tutto è effimero e istantaneo, anche le carriere dei cantanti lirici durano di meno. È come se tutto si bruciasse e si gettasse via. La Callas diceva sempre: l’importante non è debuttare ma durare, e questo è verissimo anche nel mondo dell’editoria, dove c’è questa ricerca spasmodica dell’esordiente che cambierà la letteratura. Inoltre c’è stato un distanziamento generazionale: negli anni Ottanta è esplosa tanta musica meravigliosa ma lontanissima dal mondo dell’opera, consacrando un allontanamento che era iniziato negli anni precedenti. È un peccato perché oggi ci sono regie molto interessanti, operazioni culturalmente molto stimolanti, e sarebbe bello coinvolgere un pubblico giovane ma questo è un discorso di politica culturale, e la cultura è l’ultima ruota del carro del nostro Paese.
Inoltre l’opera è una portatrice del marchio del Made in Italy nel mondo.
ES – Penso che l’opera sia ascoltata e amata pazzamente in ogni altra parte del mondo più che in Italia. Una volta organizzai un incontro alla Feltrinelli con Mario Fortunato, che da anni vive a Londra, e lui mi disse: “lei ha una capacità di raccontare l’opera che se fosse vissuto a Londra il Covent Garden l’avrebbe chiamata a fare questo prima di ogni rappresentazione. Ma il San Carlo a Napoli non la chiama?”. Ecco, questa osservazione è interessante: certi luoghi culturali hanno una chiusura al mondo circostante. Amici che vengono da Parigi, Berlino, Monaco mi raccontano che i teatri sono pieni di persone giovani, i biglietti costano molto poco e ci sono continue rappresentazioni. Quindi, come al solito, si tratta di politica culturale e di scelte che vengono fatte da un Paese e da una comunità.
Le eroine che tu tratteggi sono delle outsider, e il fatto che tu unisca la tua storia personale al racconto di queste vicende permette al lettore di capire come questi sentimenti siano contemporanei e anche universali: tutti ci siamo sentiti, in un periodo più o meno lungo della nostra vita, fuori dal contesto per chi eravamo, per ciò che sentivamo, e quindi l’opera – che talvolta può apparire come elitaria – è in realtà molto più universale di quanto possa sembrare.
ES – Assolutamente sì. Sono storie che ci fanno commuovere e questo un po’ spaventa. Sembra quasi fuori luogo commuoversi, invece bisognerebbe riappropriarsi del diritto alle lacrime, che è un diritto importante: vedi La bohème, vedi La traviata e, se ti fai un po’ trascinare, allora piangi a teatro. Io piango ogni volta che le rivedo ma solo se mi lascio andare, senza stare a controllare la storia. Bisogna tornare un po’ bambini e farsi trasportare da queste storie, così che tante volte ci fanno piangere, e questa è proprio una caratteristica del melodramma. Oggi il termine “melodrammatico” è diventato un aggettivo negativo perché noi abbiamo voluto contenere il sentimento in quanto, giustamente, detestiamo il sentimentalismo. Però il sentimento non è il sentimentalismo, sono due cose diverse.
L’immagina di copertina è tratta da un’illustrazione del libro È tardi! realizzata da Antonio “Bobo” Corduas