di Lorenzo Del Corso
Dopo una giornata come questa a Lapo manca solo la pioggia.
Ormai è un mese che mamma è ricoverata alla RSA. Lui non ce la voleva portare, voleva che tornasse a casa, ma faceva fatica a respirare, soffocava nel sonno. Si era alzato ed era entrato in camera di lei. Non appena lo aveva visto aveva cominciato a balbettare del supermercato: cosa ci fa il mio letto nel supermercato, diceva spaventata. Lapo aveva dovuto chiamare l’ambulanza e passare tre ore su una seggiolina scricchiolante in sala d’aspetto, nel silenzio; poi un infermiere era uscito per sussurrargli che era stabile, dormiva.
La situazione sarebbe peggiorata, aveva detto il medico qualche ora dopo, e gli aveva consigliato il ricovero presso una RSA. Lapo non sapeva che fare. Il medico non assecondava i suoi dubbi, e lo fissava in attesa di una risposta. La mamma, che in quel momento era più tranquilla, aveva sentito, e aveva detto, a bassa voce, che in fondo era meglio così. Avevano compilato i moduli, erano passati da casa, ed erano andati alla RSA. Dopo che le era stata data la stanza, Lapo l’aveva salutata. Stava per andarsene quando lei lo aveva afferrato per un braccio, e aveva cominciato a urlare e a piangere come una bambina rugosa, dicendo di non abbandonarla, che sarebbe morta di dolore. Erano intervenuti due infermieri per calmarla, e avevano detto a Lapo di andare pure, perché era tutto normale. Certo che era tutto normale: era solo la morte. Pensava Lapo dietro alla porta della stanza di sua madre, immobile, mentre nel corridoio bianco e verde passavano al rallentatore barelle, carrelli e camici, e lui non sentiva alcun suono, tranne i mugolii di mamma, di là dalla porta, nel letto, cullata dalle braccia dei due gorilla bianchi.
Oggi piove, e gli hanno detto che forse mamma non vedrà l’alba. Non è sicuro, certo, ma più il tempo passa più lei non si accorge di dove si trova, si dimentica di lui, crede che gli infermieri siano angeli o diavoli venuti a litigarsi la sua anima. I momenti di lucidità sono sempre più rari, e gli operatori sono costretti a tenerla addormentata per non farla spaventare, perché quando è spaventata piange e si lamenta, talmente tanto e talmente a lungo, che altri pazienti si sono lamentati. Quando il dottore gli ha detto parliamoci chiaro, tutto intorno è calato il silenzio, un vuoto totale. Ancora dentro a questo silenzio, Lapo guida per tornare a casa, da solo anche stasera. Non vuole essere lì mentre mamma si spegne, sarebbe troppo; e poi, magari non sarà stanotte l’ultima sera, magari se non resta lì con lei mamma cercherà di resistere ancora un po’, per ritrovarlo al suo risveglio.
Parcheggia e corre fino al portone, bagnandosi lo stesso. Sale le scale a piedi, perché l’ascensore è sempre occupato. Arrivato al suo pianerottolo sente le vicine che parlano ad alta voce, come al solito. Hanno sempre ospiti, invitano sempre qualcuno a casa, e… Ecco, ecco la loro consegna a domicilio. Il ragazzo con le pizze, senza guardare Lapo, bussa con forza alla porta delle ragazze. Le due vicine rendono mamma perplessa: perché, dice, se sono due donne che vivono insieme prendono solo cibo da fuori? Perché non cucinano mai?
Mamma preferisce la studentessa del primo piano, che a volte le ha pure fatto la spesa. A Lapo la studentessa del primo piano piace, è molto carina, ma è anche troppo giovane. Il suo tipo di donna è la signora Anna, che vive con il figlio piccolo nell’appartamento accanto alla Gori. Il figlio della signora Anna ha qualche ritardo, perché spesso comincia a urlare senza motivo, oppure canta, o in piena notte si mette a suonare l’Inno alla gioia col flauto della scuola. I vicini lo sanno e sopportano. La signora Anna è grata di aver trovato degli inquilini così comprensivi e tutte le volte che incontra Lapo sulle scale gli borbotta sempre un saluto, con il sorriso, facendolo arrossire.
Apre la porta silenziosamente, cercando di non farsi sentire. Decide di dormire nel letto di mamma, perché sul comodino c’è il telefono. Si è accordato con gli infermieri che, qualsiasi cosa succeda, devono chiamarlo. Abbassa un po’ gli occhi, anche se sa che dormirà poco, perché da un momento all’altro il telefono suonerà e gli diranno…
Un rumore lo sveglia. Forse il telefono ha suonato e lui non se n’è accorto. Si concentra per ascoltare il suono della notte, poggiato sui palmi, con un po’ di vertigini. Riconosce il rumore che lo ha svegliato: non è il telefono, è uno sciacquone. È Vanni, del piano di sopra. Sarà che ha qualche problema alla prostata, ma tutte le notti, alle tre spaccate, fa una lunga pisciata, godendosi lo scroscio dell’acqua a colpi intermittenti. Forse non sa che Lapo e la mamma potrebbero rimetterci gli orologi su di lui, altrimenti eviterebbe di sgocciolare così a lungo nel pozzetto. Un’altra cosa che fanno i Vanni è spostare i mobili, a tutte le ore del giorno. Spostano sedie, tavoli, armadi. Ogni tanto si sente strusciare qualcosa di pesante dal soffitto. Forse è la moglie, forse pensa di non avere dei vicini al piano di sotto, visto che di giorno cammina in casa con gli zoccoli di legno.
Lapo guarda l’ora: sono a malapena le tre del mattino. Il telefono non ha squillato. Vaga per l’appartamento. Osserva lo specchio nella luce fredda dei lampioni, il riflesso, l’ombra di se stesso, e ascolta i colpi leggeri della pioggia che cade sui tetti e l’asfalto con un suono ammorbidito, come se piovesse sul velluto. Gli sembra che sussurri: la farai morire in un letto d’ospedale. Morire. Per la prima volta lo dice. Per la prima volta realizza. Si sente mancare, barcolla fino in cucina, sbatte nello stipite della porta, facendo tremare i piatti inchiodati alla parete, tira fuori una sedia da sotto al tavolo, e si lascia andare. Nel sedersi la sedia gratta il pavimento: chissà i vicini di sotto.
Mamma non vedrà l’alba. È solo questione di secondi prima che il telefono suoni. Lo fissa dalla porta, quello scatolotto color crema che porta solo brutte notizie, brutti mali, incidenti, disgrazie, morti; lo osserva sussurrando: – Adesso… adesso… . Si concentra talmente tanto sul ricordo del suono che non riesce più a sentire nulla. Lapo cerca qualche rumore, qualche segno di vita, ma tutta la città è muta, la pioggia cessata. Nel silenzio più assoluto nasconde il viso fra le mani, e senza farsi sentire cerca di piangere.
Fuori, sulle scale, delle chiavi girano in una porta. Un mazzo pesante, che curva su se stesso, una porta che cigola e viene richiusa, per non disturbare. S’intuisce un tintinnio legnoso, lo riconosce subito: è Raudy che scodinzola sulla porta di casa di Antonio. Anche le chiavi di Antonio sbattono sulla porta, e Raudy comincia ad ansare di gioia. È un cane simpatico, anche se stupido: perché quando ci sono le partite le guarda con Antonio e a ogni goal abbaia.
Le pareti sono troppo sottili in questo condominio.
Antonio è pieno di chiavi, non si sa perché. Lapo e mamma hanno fatto molte ipotesi: forse ha altri appartamenti, forse ha paura di perderle, non si sa, ne ha talmente tante che fa fatica a girarle nella toppa e tutte le volte che esce o entra di casa si sente il suo scampanio.
Lapo li ascolta mentre scendono le scale per la passeggiata mattutina, sente le unghie di Raudy che ticchettano sui gradini. Tra poco la vecchia Gori, nell’appartamento accanto, accenderà Radio Nostalgia. Povera signora Gori: è burbera, ma ha le sue ragioni. I figli la vengono a trovare una volta a settimana e la badante si limita a farle la spesa e a dare una spolverata in casa. La Gori è sempre sola tutto il giorno e tutta la notte. L’unica cosa che le piace fare è ascoltare la musica. Però è sorda e all’ora di pranzo e all’ora di cena tutto il condominio, e Lapo in particolare, devono sorbirsi il liscio che ascolta ininterrottamente e su cui canticchia. Prima che ci fossero lamentele all’assemblea, non aveva regole e stava tutto il giorno con la radio accesa. Poi è stata obbligata a darsi un contegno e ora disturba meno. Lapo sa che, tutte le mattine, quando si sveglia alle sei, si alza e accende la radio, ma la tiene bassa bassa e si rimette sotto le coperte. Canticchia anche, a bassa voce. Questo lo sa solo lui, perché camera sua e la stanza della Gori sono adiacenti (e le pareti sottili), e quelle vecchie canzoni bisbigliate al mattino sono diventate la colonna sonora del suo risveglio.
Poco sopra i tetti il cielo si rischiara. È l’alba, e il telefono non ha ancora squillato. Lapo osserva salire la luce sui muri. Almeno lui è sopravvissuto alla notte. Rasserenato dal sole che gli entra in casa, si sdraia sul divano, ad ascoltare tutti quei rumori della sua alba, tutte quelle albe in cui mamma era lì con lui, come sempre. Tutti quei suoni sono storie, sono la sua storia, e ricorda quando la mattina si svegliava al suono dell’orologio dei suoi, agli autobus giù in strada, al bubbolio della caffettiera di babbo, e si vede giovane, e immagina che anche la signora Anna sia giovane, e sogna mentre vanno insieme alla fermata, attraversano le strisce pedonali fra le auto che sfrecciano, mentre il fiato condensa nell’aria di dicembre, e arrossiscono perché lui ha detto qualcosa che la fa ridere.
Lorenzo Del Corso è nato a Pisa nel 1994, dove resta tutt’ora. Dopo aver provato a studiare economia e informatica, ha cambiato totalmente idea e ha cominciato a studiare letteratura italiana. A un certo punto ha iniziato anche a scrivere poesie, pubblicandole su alcune raccolte (#ManifestAmi, Dazebao; Dannato vivere, Aletti; Luoghi di parole, Aletti; alcune poesie sono state selezionate al Premio Europa in versi 2020); ma poi ha cambiato nuovamente idea e ha deciso di dedicarsi ai racconti (Blam).
[Immagine di copertina: L’impero delle Luci, Renè Magritte]