di Luca Lancioni
Dovevo fare una puntura di antibiotici a una signora che si chiamava Giovanna. Quando entrai in cucina era seduta alla finestra e guardava con sguardo spento il cortile.
La salutai.
Non si voltò.
Era un po’ sorda, come sua figlia Marika mi aveva detto; mi aveva chiesto di controllarle la pressione perché la sera precedente sua madre le era parsa debole e si era operata all’anca. Il medico le aveva prescritto una cura d’iniezioni di antibiotici, ma a Giovanna nessun infermiere era andato a genio.
Lasciai la borsa sul tavolo e armeggiai con il misuratore della pressione. La salutai di nuovo e finalmente si accorse di me. Sobbalzò. Poi sorrise imbarazzata.
«Mi scusi. Pensavo che fosse arrivato mio marito…»
Io sapevo che era morto da anni.
Mi disse di essere contenta di vedermi, perché Marika aveva parlato un gran bene di me. Gli altri infermieri, invece, le avevano fatto soltanto del male.
Mi soffermai sul viso solcato da rughe sottili e da due più grandi agli angoli della bocca; gli occhi erano marroni, opachi; i capelli sporchi e fini mi parvero poltiglia. Le sue mani, abbandonate sui manici del deambulatore, erano cosparse di ecchimosi. Aveva settant’anni, ma ne dimostrava cento. Mi chiese: «Lo vede?» e indicò il deambulatore, «devo agganciarlo alla sedia perché sennò scappa. Io guardo alla finestra, mi distraggo e quando mi giro lo ritrovo alla parte opposta della cucina. Va via da solo!»
Neanche feci in tempo a risponderle che si alzò maldestramente, ansimando. Le afferrai un braccio.
«Signora, vuole che…»
Mi interruppe con un’occhiataccia.
«Devo fare il caffè» disse perentoria.
«Ma no. Non serve».
«È l’ora del caffè».
Si alzò e caricò tutto il peso del corpo sulla gamba sinistra, quella buona, e strascicò la destra. Le ruote cigolarono. Raggiunse il lavandino. Io mi avvicinai per aiutarla e lei mi scacciò con la mano. Si appoggiò con il busto sul bordo del lavabo e afferrò la caffettiera.
Le chiesi se avesse sofferto in ospedale. Marika in realtà mi aveva già detto tutto, che non era stata affatto calma, che aveva dato di matto, al punto che i medici erano stati costretti a sedarla.
Alla mia domanda, in piedi davanti ai fornelli, Giovanna si toccò la gamba.
«Al posto di aiutarmi, me l’hanno rotta!» e accese il gas con uno scatto di nervi.
Avevo visto la documentazione, le lastre parlavano chiaro: il giorno che era stata ricoverata aveva l’anca rotta.
«Mi hanno costretta ad allungarmi su uno strano letto e poi mi hanno sbatacchiata da una parte all’altra, così si è rotto qualcosa qui.» Indicò l’anca. «A me faceva poco male, invece loro non hanno fatto altro che sfasciarmi! Poi mi hanno anche tagliato, senza risolvere nulla, e mi hanno rattoppata alla meno peggio».
Andò alla credenza a prendere le tazzine.
Sistemò con accuratezza lo zucchero, i piattini e i cucchiaini sul tavolo. Le tazzine luccicarono alla luce della finestra, la caffettiera iniziò a fischiare e Giovanna sorrise soddisfatta.
Bevve il caffè e mi parlò di un programma televisivo, ma la interruppi subito e dissi sorridendo: «È l’ora dell’iniezione».
«Quindi l’ora del caffè è finita!»
E ridemmo all’unisono.
Andò alla finestra, si scoprì un pezzo di sedere, si appoggiò con i gomiti sul davanzale e continuò a parlarmi della tv. S’interruppe soltanto nel momento in cui le bucai la carne con l’ago ed emise un gemito.
«Tutto bene?» le chiesi.
Non mi rispose.
Non si staccò dal davanzale, fissò con lo sguardo un punto all’esterno, l’area del cortile che confinava con la strada.
All’improvviso, terrorizzata, mi afferrò un braccio.
«Sta tornando mio marito!» gridò. Mi strattonò. «Sta tornando a casa!»
Suo marito era morto.
Marika era stata chiara: Giovanna viveva sola da anni, vedova.
Mi lasciò il braccio. Cambiai discorso e le consigliai di distendersi spesso a letto, riposare, e non restare sempre davanti alla finestra. Le sistemai il cuscino sulla sedia mentre lei continuava a fissare la strada in silenzio.
Pensai di riferire a Marika che ormai sua madre non poteva più vivere sola.
«La prossima puntura è domani» le dissi. Sorrisi per cercare di sdrammatizzare.
Ero pronto per andare via. Presi la borsa e la salutai.
Ero sul punto di uscire quando Giovanna ruppe il silenzio, chiamandomi ripetutamente: «Infermiere! Infermiere!» Esagitata mi spiegò che non poteva accompagnarmi al portone a causa delle scale e che in ogni caso sarebbe stato opportuno attendere ancora un po’, perché a momenti sarebbe rientrato suo marito e lei aveva paura che fosse arrabbiato.
La implorai dicendole che dovevo proprio andare, perché dovevo lavorare, avevo altre visite, altrimenti sarei rimasto volentieri. Così scesi le scale e quando aprii il portone un uomo mi apparve davanti.
«Salve!» esclamò.
Aveva un fucile in spalla.
Era un anziano sulla settantina, con il viso scuro all’ombra della falda di un berretto militare e lunghe basette bianche e arruffate. Indossava una vistosa camicia a quadri rossi e neri.
Batté gli scarponi sullo zerbino.
Mi fissò con occhi sottili e verdi, dalle cornee ingiallite.
Afferrò il fucile e lo puntò contro di me.
Poi rise, si scansò di lato per farmi passare.
Io scappai in macchina con il cuore in gola. Le sue risate raggiunsero anche l’abitacolo.
La sera stessa mi chiamò Marika per dirmi che sua madre era morta, d’infarto.
Autore: Luca Lancioni, nato a Roma nel 1982. Ha studiato a Trento dove si è laureato in Storia contemporanea. Un suo racconto, “Notte di preghiera”, è stato pubblicato dalla rivista culturale Il Fuco (n° 5, marzo 2020); un altro, “La morte della somara Berta”, dalla rivista letteraria Piegàmi (n° 0, anno 2021).
[Immagine di copertina di Domitilla Marzuoli]