Il rosso e il blu. Una comune favola di migrazione, Luca Giommoni, effequ, 2020
Una delle mosse più rivoluzionarie nella storia della filosofia che ho sempre ammirato, l’ha compiuta quello che per molti anni ho sentito, per motivi su cui non mi dilungherò, come il nemico contro cui combattere: Hegel, (poi ho scoperto che in filosofia non esistono nemici, solo pensieri inapplicabili alla nostra esperienza, ma Hegel non è tra questi). Costui afferma che “niente vien saputo, che non sia nell’esperienza”. Una frase del genere si spiega anche in relazione all’idea tutta hegeliana del rapporto tra esperienza, apparenza e verità, una complessa articolazione concettuale in grado di determinare una interpretazione del mondo e della vita del tutto peculiari e che col passare del tempo ho sempre più ritenuto come un pilastro del saper stare al mondo, ovvero che la teoretica viene dedotta dall’etica, in parole povere che la verità deriva dalle regole della vita esperita.
La cosa che per me è sempre stata di grandissima importanza, e che forse oggi tendiamo a dimenticare, è che il collegamento tra etica e vita istituito in sede teoretica rappresenta il tentativo di uscire definitivamente da un’etica intesa come dialettica tra pure forme morali e quindi vuote. Per Hegel, invece, derivando i contenuti morali dall’esperienza, deve esserci un’etica strettamente riferita alla vita, il cui contenuto viene rappresentato dalla vita stessa. In soldoni: le nostre personali leggi morali sul mondo derivano dall’esperienza che abbiamo fatto in un modo tale che esperienza e leggi morali sono legate insieme in un vincolo che produrrà la nostra verità.
Tutto questo per dire che ci sono alcuni romanzi che rappresentano una descrizione di un sì fatto movimento, ovvero ci sono scrittori che riescono a realizzare storie basate su esperienze da cui derivano una morale, che quindi non è una forma vuota, un retorico moralismo, ma una occasione per scoprire una verità.
Penso, tra i tanti, a Kurt Vonnegut, spesso considerato erroneamente uno scrittore di fantascienza, che era in grado, come in Mattatoio N. 5, di descrivere la follia e l’orrore della guerra senza scadere mai in vuote forme retoriche, anzi proprio perché Vonnegut era un sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale, col suo libro più celebre è stato capace di esprimere l’immoralità schizofrenica di un conflitto con tutta la vitalità e la leggerezza di chi sa in cosa non si deve mai scadere.
A suo modo considero Luca Giommoni come una specie di prosecutore di questo percorso. Nel suo romanzo d’esordio, Il rosso e il blu, ci racconta le vicende di alcuni migranti che dai paesi dell’Africa sono arrivati in Italia, in particolare di Makamba, il quale vorrebbe aggiustare il mondo riequilibrando le tubature dell’acqua. Giommoni lo fa ricorrendo allo stratagemma della favola esattamente come Vonnegut fa con lo stratagemma della fantascienza, col risultato che si ottiene un effetto narrativo etico di grande importanza, perché di fatto non siamo davanti a una favola, ma a una verità della vita che molto spesso qua in Italia non vogliamo guardare.
Si potrebbe correre il rischio di interpretare il libro come una presa di posizione politica, dove per posizione politica si intende più precisamente partitica (ovvero contro una certa destra, insieme a una certa sinistra, etc…), invece a me piace intenderlo come una posizione politica nel senso di scelta personale e morale di un individuo di fronte a un fenomeno. Come si è posizionato Giommoni di fronte all’orrore dell’immigrazione contemporanea? Con una favola che non è una favola, esattamente come un mare che non è solo un mare, ma anche una vasta distesa di lacrime.