di Angelo Lachesi
Il turno di notte era appena iniziato e in ambulatorio lo attendeva il primo paziente. Era grave, come gli era stato anticipato dal collega, e doveva esser visitato con urgenza.
Quando il medico entrò in sala, il paziente era seduto sul lettino: attendeva immobile con il bacino piegato in avanti e con le mani che premevano docilmente sulla ferita. Dai lembi della felpa, larga e sporca, fuoriuscivano frammenti di garze bianche macchiate di sangue mentre la testa, a pochi centimetri dalle mani, pendeva sul ventre come fosse sprofondata in un’accurata anamnesi. Il medico chiuse la porta e si sistemò lo stetoscopio dietro al collo. L’uomo sembrò non accorgersi della sua presenza: sollevò leggermente il capo, con un’espressione di insolita rassegnazione negli occhi. Il medico indossò i guanti sterili e si avvicinò al lettino. Il paziente rimase immobile.
«Allora, giovanotto, cos’è successo?» chiese il medico.
L’uomo squadrò brevemente il medico, poi sollevò le spalle in un gesto sibillino. Solo allora il medico si accorse che il paziente non era giovane come sembrava: aveva quaranta, forse quarantacinque anni e, nonostante la fronte accigliata e l’aspetto trasandato, manteneva un contegno gentile, vagamente signorile. Dal viso ovale emergevano gli zigomi marcati e la mascella squadrata, mentre le guance, leggermente incavate, erano scurite per la barba non rasata. Nelle orbite brillavano due occhi chiari, maliziosi, dal colore indefinito che, nonostante la ferita, tradivano un’insolita vivacità.
«Allora?» incalzò il medico.
«Dottore, vorrei un antidolorifico».
«Un antidolorifico» ripeté il medico «certo, ma vediamo prima la ferita».
«Non serve» rispose l’uomo, in tono lievemente sarcastico. «A breve si sistemerà tutto. Ho solo bisogno di un antidolorifico per domani».
Il medico, con un tono paterno non troppo convinto, spiegò che avrebbe dovuto prima vedere la ferita, disinfettarla, applicare eventuali punti, poi avrebbe pensato a un antidolorifico.
«No, dottore, davvero» rispose l’uomo con gentilezza «la ferita si risolverà a breve. È per domani che mi serve l’antidolorifico, la prego».
«Mi faccia capire» disse il medico «lei viene in ospedale sanguinante, con una ferita grave e chiede un antidolorifico senza nemmeno farsi visitare?».
«È così dottore».
«Mi mostri la ferita!» esclamò il medico infastidito.
«Dottore, le ripeto, la ferita non è tanto grave, tra qualche ora si risanerà. Mi serve solo un antidolorifico».
«Ah» esclamò contrariato il medico, accondiscendendo il sarcasmo del paziente. «Ricapitoliamo: lei viene in ospedale, con una ferita sanguinante, dice che la ferita non è grave e chiede urgentemente un antidolorifico, corretto?».
L’uomo fece segno di sì con la testa.
«Forse non se n’è reso conto: questo non è un supermercato dove, tra una pomata per le verruche e un doposole abbronzante, compra anche un antidolorifico. Lei è in ospedale per un problema, e io sono qui per aiutarla. La cosa è semplice: se vuole farsi visitare… bene! Altrimenti, non posso fare nulla».
A quelle parole l’uomo socchiuse gli occhi, rassegnato, e alzò la felpa con entrambe le mani.
Il medico scrutò le garze macchiate di sangue sopra la ferita sull’addome. Accese la lampada da terra e illuminò il punto preciso.
«Vediamo cosa abbiamo qui» sussurrò. «Alzi bene la maglia» ordinò al paziente, avvicinando il volto verso la ferita e rimuovendo il primo strato di garze. Tolse con cura anche il secondo strato e gettò le garze sporche nella pattumiera.
Rimosso il terzo strato, si arrestò, allibito.
Il ventre del paziente, in corrispondenza del fegato, era vuoto. Vuoto come se il fegato fosse stato asportato totalmente e avesse lasciato uno spazio da riempire, un buco larghissimo che, malgrado il sangue grondante, permetteva di scorgere tutti gli organi circostanti.
Il medico guardò a lungo la ferita poi, sempre più perplesso, squadrò l’uomo.
«Come le dicevo dottore» disse l’uomo con un’indecifrabile indifferenza «succede ogni giorno da tantissimo tempo, e succederà ancora. Vede… il fegato ricresce durante la notte, ma è di giorno che fa male. Ora può darmi un antidolorifico?».
Il dottore atterrito guardò il paziente negli occhi, poi scrutò la ferita e di nuovo l’uomo; indeciso se fosse più inquietante l’assurda ferita o il viso impassibile di un paziente privo di un organo.
«Mi dica come si è procurato questa ferita».
«È una storia complicata, dottore».
«Lei è senza fegato, se ne rende conto? Lei non dovrebbe nemmeno essere in vita. Come fa a stare così tranquillo?» chiese il medico, incredulo, allontanandosi dal paziente che intanto ripuliva con il lembo di una garza un rivolo di sangue all’altezza dei pantaloni.
«Mi dica, dottore, cosa è più potente la morfina o il fentanyl? Sa, non sono molto competente in materia, ma so che gli analgesici oppiacei sono i più efficaci…».
Il medico impallidì e ritto, al centro della stanza, continuò a fissare sconvolto il ventre del paziente.
«Allora, dottore» riprese l’uomo guardando il medico di sfuggita «cosa mi dice?».
«Come si è procurato quella ferita?» ripeté con sgomento, il medico.
«Non saprei proprio come spiegarglielo» rispose l’uomo con il viso rivolto al ventre. «Guardi» proseguì avvicinando la lampada a sé e proiettando la luce in direzione della parete destra. «Guardi qui, guardi qui» ripeté indicando in direzione del proprio colon e invitando il medico ad avvicinarsi ancora di più. «Guardi attentamente: sta già ricrescendo».
Il medico si avvicinò titubante, si abbassò fino ad arrivare col viso a pochi centimetri dalla ferita e vide dei pezzi di fegato, piccoli brandelli di tessuto, che si andavano addensando alle pareti della ferita.
«Quando ricresce non è un problema, certo la ferita sanguina, ma non fa male».
Il medico sembrò non riuscire a reggersi sulle gambe. Un vago torpore gli annebbiò la vista, come se un’allucinazione stesse rendendo il mondo instabile. Vacillò per alcuni secondi poi vide la vecchia sedia in legno nell’angolo della sala, ne afferrò lo schienale e la trascinò fino al lettino. Si sedette, ingobbito, e osservò la ferita dell’uomo: scrutò i piccoli lembi di fegato che crescevano, si espandevano con lenta e inesorabile frequenza e si addensavano nel vuoto addominale come una schiuma organica.
“Che scherzo è mai questo! Deve essere per forza uno scherzo” pensò mentre il respiro sembrò mancargli in preda alle vertigini. “Non può… non può un fegato ricrescere in questo modo” e appena questa idea gli baluginò in testa, quasi fosse immediatamente convinto di scoprire il complesso trucco che rendeva così verosimile l’inganno, infilò la mano nel ventre del paziente. Lo fece con forza, con le cinque dita aperte e rigide, quasi pietrificate dalla tensione, con i muscoli del braccio tesi, pronti a scattare alla minima necessità. Infilò la mano digrignando i denti e socchiudendo gli occhi, come se volesse concentrarsi ancora di più, mentre le labbra gli si serravano in un ghigno nervoso.
Il paziente urlò, sussultando sul lettino appena la mano del medico colpì l’intestino.
«Dice che vuole aiutarmi e poi mi prende a pugni» gli rimproverò, sorpreso, l’uomo.
«Mi perdoni» esclamò affranto «io… io non volevo, credevo solo che… vede la sua pancia» farfugliò agitando le mani.
«Credeva cosa» fece eco il paziente «che stessi scherzando? Ora la prego, mi dia un antidolorifico» e poi, all’improvviso, additando la finestra chiusa sulla parete sinistra, disse: «Guardi. Guardi la finestra. Il fegato non mi è ancora ricresciuto, e già quel dannato rapace è qui ad attendermi».
Il medico alzò lo sguardo verso il paziente poi si voltò in direzione della finestra. Un’aquila enorme dalla livrea bianca e marrone era ferma sul davanzale, appena dietro il vetro. Aveva dei grandi occhi vitrei e pareva scrutare l’interno dell’ambulatorio con un contegno quasi umano.
Il medico fissò l’animale per qualche secondo poi, come d’istinto, si alzò e batté con la mano il vetro della finestra. Il rapace rimase immobile.
«È inutile dottore» esclamò l’uomo. «Anche se la manda via, tornerà… ritorna sempre. È qui per me, non posso scappare, posso solo ingannarla con l’antidolorifico. La prego, mi aiuti ora».
Il medico si rimise a sedere, questa volta sprofondò nella sedia con le braccia che ciondolavano e con le gambe distese.
«L’antidolorifico» bisbigliò alzando lo sguardo verso il soffitto «sì, un antidolorifico» ripeté stordito. Poi controllò la finestra. Non c’era più traccia del rapace. «La morfina fa al caso suo, la morfina la darei certamente a chi non ha il fegato… la morfina…» riprese a ripetere quasi in trance, poi rimase in silenzio con la bocca semiaperta e con gli occhi fissi al soffitto, ormai privo di coscienza.
«Dottore!» lo chiamò l’uomo scuotendolo con la mano sulla spalla.
Il dottore si destò e si ricompose sulla sedia. La stanza aveva ripreso a ondeggiare e, convinto di avere dinanzi un’allucinazione, errò con la mente alla ricerca di spiegazioni plausibili. Non riuscì a pensare, le idee si bloccavano e il petto gli si strinse in un’angoscia profonda. Capì solo che doveva parlare con il collega: aveva bisogno di un parere, di condividere l’inspiegabile visione di quella notte. Si alzò dalla sedia istintivamente. «L’antidolorifico» pronunciò titubante indicando con il dito la porta. «Vado… vado a prenderlo» poi si tolse i guanti, li gettò nella pattumiera e uscì dall’ambulatorio.
Con passo rapido percorse il corridoio ed entrò nella sala accanto, dove il collega effettuava le visite. L’ambulatorio era vuoto. Controllò le altre stanze, la sala dei medici e l’accettazione del pronto soccorso. Chiese a chiunque incontrasse dove fosse il collega ma nessuno seppe rispondergli. Andò più volte avanti e indietro per i corridoi, in preda a un’isterica agitazione, come se il suo destino dipendesse unicamente dall’incontrare o meno il collega. Dopo qualche minuto di vane ricerche salì al piano superiore, immaginando che il collega avesse accompagnato un paziente. Controllò i reparti di chirurgia generale, geriatria, nefrologia ed ematologia, poi il laboratorio analisi, l’unità di radiologia e le sale d’attesa. Tra un reparto e l’altro, correva, sgomento, urlando il nome del collega del quale non c’era traccia. Dopo trenta minuti di ricerca tornò al pianterreno e si diresse verso il suo ambulatorio. Nel corridoio, in piedi dianzi alla porta c’era il collega che lo attendeva perplesso.
«Dov’eri?» chiese trafelato, madido di sudore, fremendo in tutto corpo come dovesse rivelare la più sconcertante delle visioni. «Devo mostrarti una cosa assurda, qualcosa che non hai mai visto in vent’anni di carriera».
«Ero in bagno» rispose pacato il collega facendo segno con il pollice alle sue spalle, in direzione della porta con la scritta toilette. «Ma prima di farmi vedere qualunque cosa dobbiamo capire chi si è introdotto nella sala otto: hanno rubato dei farmaci!».
«Rubato dei farmaci?».
«Sì, l’infermiera ha visto un uomo con una felpa sporca uscire dalla sala e fuggire via».
Il medico strabuzzò gli occhi e si fiondò nell’ambulatorio.
Il lettino era vuoto. Al centro c’era solo una garza intrisa di sangue.
«Il mio paziente era qui» disse confuso.
«Ora dov’è?».
«Non lo so… vedi, lui…».
«Stai calmo, dimmi, piuttosto, cosa dovevi mostrarmi?».
Il medico guardò di nuovo il lettino, la garza e poi la finestra dai vetri scuri e rettangolari che riflettevano l’interno dell’ambulatorio.
Pensò a come descrivere ciò che aveva visto senza esser preso per folle quando l’aquila, maestosa, planando in silenzio, ritornò sul davanzale e guardò di nuovo all’interno dell’ambulatorio come ad analizzarne il contenuto.
«Non è qui! È andato via» pensò ad alta voce il medico, mentre il collega scappò terrorizzato lungo il corridoio.
Appena qualche secondo e l’aquila si voltò. Con un colpo d’ali, riprese il volo.
Il medico si avvicinò alla finestra, ne aprì un battente e vide il rapace volare lontano; lo vide come una linea sfocata, appena visibile sullo sfondo scuro del cielo mentre volteggiava in aria e scrutava la città alla ricerca della sua preda.