Roy Menarini, Mimesis, 2022
Critico cinematografico, accademico, saggista, curatore, programmatore, a seconda del contesto Roy Menarini può vestire uno (o più) di questi profili, compreso quello del direttore artistico come nel caso della manifestazione “La settima arte. Cinema e industria” che si svolgerà a Rimini dal 27 aprile al 1° maggio 2022.
Ma prima della figura professionale che gli viene di volta in volta riconosciuta e ancora prima che lo si identifichi come un cinéphile, il suo profilo è quello, simile a milioni di altre persone, dello spettatore.
La grande illusione, il cui titolo è preso a prestito dal capolavoro antimilitarista di Jean Renoir del 1937, rappresenta proprio un ritorno alla fonte, un viaggio sulla Delorean che lo riporta, dopo anni passati ad analizzare opere avendo come destinatari lettori, studenti o pubblico, a vedersi e raccontarsi come fruitore, attraverso dieci momenti topici indicati come “stanze”.
Non esiste un modo univoco di definire lo spettatore “non solo perché ciascuno ha in mente una sua idea di spettatore, basata il più delle volte su di sé e sui propri comportamenti, ma anche perché nel corso del tempo guardare un film ha assunto significati culturali e sociali molto diversi tra loro”, ma esistono delle coordinate che permettono all’autore, ad esempio, non solo di ricordare la fascinazione della prima volta al cinema, nel 1977, con la scritta iniziale di Guerre stellari che si perdeva in un punto inconcepibile dello schermo, ma anche di collegare l’impatto devastante di quella visione, anche a distanza di anni, all’invasione del merchandising legato al brand Star Wars.
Pur non volendo universalizzare la sua esperienza, Menarini riesce a tracciare, attraverso epifanie, visioni disturbate e disturbanti, un cammino del cinefilo attraverso passaggi e luoghi ancora oggi necessari ribadendo, ad esempio, la centralità della sala, l’importanza dei festival nell’intensificare la visione soprattutto a livello emotivo, il ruolo dei cineclub nell’avvicinare i giovani a qualunque tipo di cinema (nel suo caso Heimat di Edgar Reitz, a mio avviso il capitolo più affascinante) e anche il salotto di casa come alternativa capace di stupire (Twin Peaks, ça va sans dire) e di porsi come consumo complementare e non oppositivo.
Ma se dovessi scegliere un capitolo, tra i dieci (più uno, sorpresa), fondamentale per tutti coloro che vogliono immaginare il cinema oltre le attuali contingenze, accelerate ma non causate dal Covid-19, sarebbe sicuramente la sesta stanza dove l’autore racconta la prima volta in sala con sua figlia Alice, all’epoca treenne, per Shrek 3. In quella visione frenetica, confusa, interrotta, forse prematura risiedono il potere e il senso di un medium che, pur nell’epoca in cui “gli schermi sono schermi […] e proiettano tutti audiovisivi digitali”, resta profondamente ancorato alla dimensione sociale, comunitaria, esperienziale.