La libertà del benessere e della crescita
All’inizio del 2020, nel volgere di qualche mese, la nostra quotidianità è mutata in un immaginario apocalittico che ha fatto da catalizzatore a una serie di contraddizioni interne alla nostra concezione di società, progresso e modernità, dalla cui messa in discussione sono emerse due grandi narrazioni: una sosteneva che sarebbe andato tutto bene; l’altra che niente sarebbe più stato come prima.
Partiamo da lontano
Un lungo editoriale pubblicato a maggio 2020 sul New York Times, evidenzia come le grandi metropoli americane, al netto dei loro problemi storici, da motori del progresso del Paese, sono diventate enclavi urbane divisive.
La ricchezza prodotta nei poli finanziari e tecnologici si accumula in ristrette fasce della popolazione e all’interno di circoscritte aree urbane, escludendo dal processo un ampio numero di cittadini, tra cui immigrati, minoranze etniche o manodopera lavorativa a bassa scolarizzazione, costretti a vivere in condizioni precarie in periferie dove i servizi pubblici sono ridotti all’osso e l’aspettativa di vita tende al ribasso.
In un commento all’articolo, il geografo e politologo David Harvey, evidenzia come le opportunità di vita dipendano in buona misura non solo dalle proprie capacità, ma anche dal “codice postale” in cui si nasce.
Alla luce di ciò, come ha fatto notare il ricercatore Franco Palazzi su Jacobin Italia, le rivolte scoppiate a seguito della morte di George Floyd dovevano essere lette anche all’interno di una cornice sociale in cui esiste una marcata disparità tra cittadini. Disparità inasprita da eventi eccezionali, ma che si rinforza ogni giorno all’interno di in uno spazio pubblico connotato economicamente e politicamente, dunque da ridiscutere.
L’ondata iconoclasta seguita agli eventi ha polarizzato l’opinione pubblica, e qualunque parte si sia deciso di prendere all’interno del dibattito, ci sono state ottime argomentazioni a riguardo. Ma più che davanti a una discussione pubblica sull’uso dello spazio comune quale luogo in cui definire un’ideale condiviso di società, sembrava di trovarsi in una terra di nessuno, stretta tra due trincee che si contendevano l’egemonia sul presente, nel tentativo di evitare che quello stesso spazio pubblico diventasse un non-luogo sterile, in cui l’orizzonte simbolico, come nella Los Angeles di Blade Runner, venisse definito da uno sconfinato materialismo pubblicitario.
Per uscire dal pantano, il ricercatore Enrico Gullo, ad esempio, aveva proposto una via storica, ma ce ne è una più speculativa, che non interpreta l’azione iconoclasta come atto rivoluzionario né la sua condanna come rigurgito reazionario, piuttosto li tiene entrambi come gesti conformi all’ideologia entro cui si manifestano, incapaci dunque di proporre un reale cambiamento sistemico.
Giusto e sbagliato non fa differenza
L’economista francese Thomas Piketty, nel suo Capitale e ideologia (La Nave di Teseo, 2019), sostiene che la disuguaglianza è un fenomeno artificiale, non naturale, ma come tale è giustificato dall’ideologia che regge l’edificio politico da cui quella disuguaglianza deriva.
Nella nostra epoca, in cui vige la narrazione meritocratica, dice Piketty, la disuguaglianza è “giusta” (naturale) nel momento in cui un individuo, pur avendo gli stessi diritti e responsabilità dei suoi simili, non riesce a emanciparsi e ottenere la propria libertà. In sostanza: se fallisce, è colpa sua.
Alla stessa maniera, Mark Fisher sosteneva che l’ideologia oggi dominante ha consolidato l’idea per cui il lavoro salariato, la produttività, il profitto e il consumo, siano gli unici sistemi “reali”, dunque naturali, utili per l’emancipazione individuale, a prescindere dal retroterra culturale, etnico, sessuale e religioso del cittadino. In altre parole: ogni individuo è potenzialmente libero di concorrere per il proprio riconoscimento identitario, purché abbia il potere economico (o il codice postale giusto) in grado di garantirlo.
Come sostengono Alex Williams e Nick Srnicek in Inventare il futuro (Nero, 2018), riprendendo Fisher, dotare di valore economico ogni elemento materiale e immateriale (cultura, istruzione, politica, informazione, etc.), vincola la libertà alla pragmatica possibilità di scegliere quale prodotto si ritiene utile per raggiungerla.
Per quanto un individuo possa essere libero di rifiutare un lavoro perché non conforme a quelle che sono le sue aspettative di vita, questa libertà sarà tanto maggiore quante sono le risorse finanziarie in suo possesso. Allo stesso modo, per quanto quell’individuo sia libero di scegliere la qualità della propria istruzione o sanità, questa libertà sarà tanto maggiore quante sono le sue risorse finanziarie.
Perciò, benché ogni individuo abbia a disposizione tutte le opzioni possibili, per molti, a livello pratico, queste opzioni sono inaccessibili. Garantire un diritto a tutti senza fornire a tutti le risorse per accedervi, significa di fatto escludere una parte dall’accesso al diritto.
È un’intuizione banale, da non ridurre a sineddoche, certo, ma da porre in dialogo con la più ampia cornice descritta dall’articolo del New York Times: l’idea di una libertà materiale è positiva per una ristretta fascia di popolazione, e nociva per chi è esposto ai suoi effetti collaterali. Compreso l’ecosistema in cui questa libertà si manifesta.
Spillover e zoonosi
Sebbene il dibattito sia ancora in corso, parte della comunità scientifica concorda nell’attribuire le cause della diffusione della Sars-CoV 2 al processo di spillover, ovvero il “salto di specie” di un agente patogeno da un’animale selvatico all’uomo, come già avvenuto per altre epidemie contemporanee, come l’Ebola.
Tra i processi che attivano lo spillover, rientrano le attività antropiche, come l’espansione degli spazi urbani e industriali, che porta a una riduzione degli habitat naturali in cui vivono gli animali selvatici, i quali, trovandosi a stretto contatto con l’uomo, rendono più probabili i processi di zoonosi.
In una società interconnessa globalmente, che permette rapidi spostamenti non solo delle merci ma anche degli individui, e con un’elevata densità abitativa nelle aree industrializzate, come quella di Wuhan o della Lombardia (due epicentri della pandemia), il propagarsi di una malattia è controllabile solo attraverso drastiche e restrittive misure di contenimento, con pesanti ricadute in termini sanitari ed economici che, oggi, sono sotto gli occhi di tutti.
Questi elementi pongono una serie di interrogativi circa la possibilità che ciò che ha colpito il nostro sistema non sia solo un fattore esogeno e dunque incontrollabile, ma anche un effetto endogeno e quindi se non prevedibile, potenzialmente scongiurabile, ricollocando la pandemia sia all’interno del più ampio dibattito sull’antropocene, sia al più stretto discorso che riguarda la politica quotidiana.
Tuttavia, investire risorse in una minaccia remota non è sostenibile né in termini economici né in termini politici. Il problema si affronta quando si presenta, a costo di sacrificare gli elementi più deboli.
Ad esempio, lo scorso maggio, Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, chiedeva di indirizzare i soldi stanziati dal governo per fronteggiare l’emergenza, verso le imprese e non verso i lavoratori.
Come ha fatto notare Simone Fana su Jacobin Italia, tra le righe del presidente di Confindustria si è letta la deriva negativa del mantra “niente sarà più come prima”. Ovvero, affinché il benessere, la libertà e la crescita non cessino nemmeno per via di una pandemia diffusa anche per via di quell’ambita crescita, c’è bisogno di una classe subalterna che non è potenzialmente libera di godere di quel benessere e di quella libertà che il sistema non può cessare di produrre per raggiungere gli obiettivi di crescita.
Tutto ciò appare più paradossale quando il concetto di “classe subalterna” non comprende più gli altri, ma anche noi. Dunque, perché se le condizioni di vita oggi appaiono così insostenibili, continuano a essere definite naturali?
[Seconda parte: La libertà negativa e le volontà collettive]
[Terza parte: Lo strano e il perturbante nella libertà contemporanea]