La parabola dei ciechi, Gert Hofmann, Racconti edizioni, 2019
Sarà che mi manca la libertà di spostarmi tra regioni, sarà che ho una voglia incredibile di tornare in un museo, sarà che dopo aver letto La parabola dei ciechi la mia curiosità me lo chiede ripetutamente, ma vorrei proprio andare a Napoli, più precisamente al Museo di Capodimonte, più precisamente ancora davanti al quadro di Bruegel il Vecchio, per guardare da vicino Ripolus, lo Spellato, Bellejambe, Malente e i due anonimi, per vedere i sei ciechi che hanno ispirato il racconto lungo di Gert Hofmann.
La parabola dei ciechi di Hofmann, anche se scritto più di quattrocento anni dopo dell’omonimo dipinto di Bruegel il Vecchio, ne è la genealogia narrata, la rappresentazione scritta di come sei ciechi sono diventati arte.
Ripubblicato di recente da Racconti edizioni, con l’efficacissima traduzione di Tiziana Prina, La parabola dei ciechi è una strada, uno steccato, un incontro, un albero, un’epoca, una casa, una persona, una pioggia, un orizzonte, dal dubitabile punto di vista di sei ciechi, svegliatisi una mattina da un ipotetico fienile, che si mettono in cammino per raggiungere la casa del pittore che li vuole dipingere. Con un equilibrio perfetto tra malinconia e leggerezza, Hofmann regala al lettore uno sfondo bianco su cui proiettare quello che non si può vedere, ma solo immaginare, proprio come sono costretti a fare i sei ciechi con tutto quello che gli gravita attorno; i sei uomini che capitombolano tragicamente verso l’eternità che spesso dona l’arte, interrogandosi se sia giusto rendere eterna una umanità del genere: “Perché, chiediamo, deve dipingerci, non basta che esistiamo?” chiedono i ciechi al pittore senza ottenere risposta. Ma tanto questa eternità, per i tristi paradossi della vita, sembra essergli in parte preclusa fin dall’inizio, come dice il figlio dello scrittore nella postfazione del libro: “Fuori dalla religione, l’arte è il principale rimedio contro la realtà e la mortalità, ed è solo ai ciechi che i suoi benefici sono in un qualche modo interdetti”.
Nonostante abbia poco più di cento pagine, La parabola dei ciechi non scarseggia per le chiavi di lettura, rimandi, significati nascosti, che vi si possono trovare. A partire dal “noi” con cui è narrata la storia, questa originalissima prima persona plurale che sono i ciechi, ma potremmo essere anche noi che guardiamo, che leggiamo, con le nostre visioni parziali, con la nostra vista difettata. C’è un mondo dove le persone vengono chiamate soltanto per la loro professione o età (la serva, il bambino, il giardiniere, il pittore) o le loro azioni (chi bussa – chi ha bussato), come se gli uomini fossero solo iperonimi in una precarietà dove anche il linguaggio stesso è messo in discussione, dove le parole potrebbero non aver più quel preciso significato. Fino ad arrivare agli echi di un mondo privo di innocenza, di un’Europa alle prese con la Guerra degli ottant’anni (la data dello scoppio della guerra coincide con la data di creazione del dipinto di Bruegel), di un presente dove i personaggi non sanno dove andare proprio come i sei ciechi di Hofmann, che, come si può intuire tra le righe della prefazione di Funetta al libro, potrebbero anche rappresentare la confusione tra gli stati europei nella recente storia contemporanea, o forse potrebbero essere solo la raffigurazione della condizione dell’essere umano, destinato a cadere, a urlare, a essere preso in giro, ai triboli, a cercare di vedere quello che non c’è, costretto a barcamenarsi nel vortice di un mondo che da secoli continua a girare sempre uguale. Ma ognuno può trovare le proprie interpretazioni, quello che conta è come Hofmann, con una scrittura teatrale, che mi ha ricordato molto Aspettando Godot, riesca a caricare le sei traballanti figure dipinte da Bruegel di un’umanità tragicomica, grottesca, creando un racconto picaresco che diverte, commuove, indigna, impietosisce, e fa compagnia, come dovrebbero fare tutte le grandi storie.
[Immagine di copertina: La parabola dei ciechi, Pieter Bruegel il Vecchio, 1568]