Di recente sono usciti al cinema due film italiani vietati ai minori di 18 anni. Niente di pruriginoso. Si tratta di due film, a loro modo, importanti, benché solo uno abbia vinto la guerra dell’attenzione mediatica e sia stato salutato come un film necessario e in grado di parlare ai giovani, benché in realtà li adeschi con un linguaggio poco convincente e del tutto fuori fuoco rispetto a quanto promette.
Partiamo da questo perciò.
De La scuola cattolica, film di Stefano Mordini presentato fuori concorso alla 78° mostra del Cinema di Venezia, si è chiacchierato molto perché è stato “censurato”. Niente tagli, solo restrizione d’età (VM18). A che si legge in giro, perché nel suo sviluppo, “equipara vittima e carnefice”, e i protagonisti vengono mostrati come “incapaci di comprendere la situazione in cui si trovano coinvolti” (si fa riferimento a una scena in cui i ragazzi della scuola, a lezione, commentano un dipinto in cui Cristo viene flagellato).
Ma se ne è parlato anche perché si tratta di un film tratto dall’omonimo romanzo di Edoardo Albinati, vincitore del premio Strega nel 2016. E perché parla di un famoso caso di cronaca nera del 1975.
La commistione di queste tre cose ha scatenato una piccola polemica che, come capita, ha accresciuto l’interesse attorno al film e ha invitato i giovani a sfidare la censura e andare in sala a vederlo.
È bene chiarire un equivoco però: La scuola cattolica non parla del massacro del Circeo. Quella vicenda è solo una parte del film. E benché il climax della narrazione (e della promozione) venga costruito attorno a quel fatto (risultando se non disonesto, quanto meno confusionario), il film racconta soltanto la storia di due dei cinque protagonisti coinvolti: quella di Angelo Izzo e di Gianni Guido.
E la loro storia si diluisce e intreccia con le storie di una coralità di personaggi che con la vicenda del Circeo non hanno niente a che fare; ma hanno a che vedere invece con parte del milieu culturale in cui Izzo e Guido si sono formati, vero fulcro del film.
Di Andrea Ghira, il terzo ragazzo coinvolto, non viene raccontato nulla. Durante il film viene nominato come il ragazzo che sta per uscire di galera. Ma perché sia in galera e che legami abbia con Angelo e Gianni, non viene mai detto. Ghira appare solo sul finale, per fare il suo e sparire.
Allo stesso modo, di Donatella Colasanti e Rosaria Lopez non viene raccontato niente. Sono rappresentate come due ragazze inermi, impossibilitate anche solo a parlare. Non ricordo una battuta espressa da Rosaria (eccetto un «sì, però torniamo presto» quando Donatella la convince a seguire i ragazzi alla villa anziché andare al cinema).
E a Donatella, più che cantare Battisti o ridere ed essere accondiscendente verso tutte le proposte del gruppo, non viene fatto fare altro. Una scelta quantomeno discutibile, visto ciò di cui si è fatto carico Donatella a seguito dei fatti, in quanto donna esposta al pubblico giudizio, a partire dalla famosa foto del suo ritrovamento.
Il ruolo di Donatella e Rosaria, nel racconto del film, è preciso: essere vittime “proletarie”; e serve da contraltare al ruolo dei ragazzi: essere assassini “alto-borghesi”. Angelo Izzo e Gianni Guido appaiono sempre perfettamente calati nel ruolo di futuri aguzzini consci della loro posizione di superiorità rispetto alle vittime. Da quando ridono delle punizioni del preside, perché i loro padri hanno finanziato la costruzione della scuola; a quando ribadiscono che le due ragazze sono prive di valore perché popolane, sono “carne” e “carne” restano.
Nel film dunque, come pura struttura narrativa, non c’è nessun rischio di fraintendere il piano della violenza mostrata o di confondere vittime e carnefici. I ruoli dei protagonisti sono così definiti da risultare manichei e plastici, privi di qualsiasi ambigua sfumatura.
La scuola cattolica dicevamo, non è un film che parla del massacro del Circeo, o almeno, non in maniera centrale, diretta ed esaustiva.
Perché non è solo la violenza materiale dell’omicidio a rappresentare il caso, ma quella più subdola ed endemica che si è aggrumata attorno, prima e dopo. Una violenza capace, nella più tragica delle sue deformazioni, di produrre un caso come quello del Circeo. Ma una violenza capace, nella più tragica delle sue deformazioni, di sfuggire al contesto che l’ha prodotta, di derubricarsi a caso isolato, folle parto dei suoi attori e niente più. Una violenza non solo pratica, ma anche politica, che, ieri come oggi, nasconde il peso sociale e politico degli attori coinvolti, e trasforma le vittime in complici e colpevoli, per scampare al processo.
Credo sia anche questo l’elefante nella stanza che il film avrebbe dovuto inquadrare, se voleva parlare del Circeo. Invece si è concentrato sulla spettacolarizzazione dell’atto, con una confusa e incompleta ricostruzione dei fatti, e una totale assenza di riflessione e sguardo sul poi.
Il massacro del Circeo non ha avuto il suo epilogo in ciò che si è compiuto nella villa, ma in tutto ciò che è emerso nel dibattito pubblico.
La scuola cattolica è quindi un film confuso. Vorrebbe parlare di un tema, o forse più temi, ma non è mai a fuoco sull’obiettivo. Se questo è voluto, va anche bene, ma non lo si venda come un film che parla di qualcosa che è molto più di ciò che è rappresentato, né come un film necessario per i giovani.
Del secondo film che dicevo in apertura si è chiacchierato meno, forse niente. Sto parlando di A Chiara (2021), di Jonas Carpignano, già autore di A Ciambra e Mediterranea.
A Chiara parla di una ragazza di 15 anni, Chiara appunto, nata e cresciuta a Gioia Tauro. La sua è una classica vita da adolescente: scuola, palestra, uscite con le amiche, il legame con la famiglia, in particolare con la sorella più grande e il padre. Una notte però scopre che sotto le apparenti ruotine si cela il segreto di pulcinella che, come le dice la madre, lei non è ancora pronta a capire.
Chiara in realtà capisce benissimo, e si trova da un giorno all’altro a fare i conti con un dubbio esistenziale molto pesante: cosa comporta essere nata in una famiglia ‘ndranghetista?
Queste domande prendono forma dentro un film in cui la “storia mafiosa” non viene spettacolarizzata: non ci sono morti violente, non ci sono sparatorie, faide, Mercedes dai vetri oscurati, tinte crime da guardie e ladri. La violenza è raccontata in senso ampio ma subdolo. È qualcosa che si svela dentro l’ordinarietà della vita, ci vive in simbiosi, ne è il suo doppio negativo. È sotterranea, latente, nascosta, ma si percepisce, sebbene non si incarni nel cattivo di turno, semmai si scopre che il cattivo di turno è la persona che amavi e su cui riponevi più fiducia.
A Chiara è un film con tanti piccoli difetti, ma se dovessi definirlo con una sola parola, lo definirei sincero. È un film che non condanna e assolve. Una storia di formazione dentro un affresco su certe tragedie italiane molto più convincente e attuale de La scuola cattolica.
La regia di Jonas Carpignano è intima, ci porta dentro la vita di Chiara e della sua famiglia come se ci stesse mostrando il filmino di famiglia del diciottesimo della nipote.
A Chiara, come La scuola cattolica, è stato vietato ai minori di 18 anni, ma non si sono alzati scudi contro la censura, né si sono spesi calorosi inviti alla visione quale film necessario ai giovani per riflettere sulle brutalità di certe sfumature d’Italia.
Eppure A Chiara mi è parso un film in grado di parlare, oltre che di una bruciante attualità, ai giovani che con quell’attualità ci devono fare i conti, e non solo a loro.
Ma in questo paese, da che sono nato, non ho mai sentito, per davvero, parlare ai giovani. Anche quando si dice di farlo, come capitato ora con La scuola cattolica, si finisce per parlare in realtà di altro, di cose che probabilmente non li riguardano, con modi che magari poi si rivelano anche funzionali a catturarne l’attenzione, ma che mi sembrano lascino poco spazio alla riflessione, ma invochino più lo scandalo, la polemica e la spettacolarizzazione della violenza, senza poi chiedersi cosa tutto questo comporta o cosa davvero lascia ai giovani.