Pane e Allah, Giorgio Gigliotti, Ponte Sisto, 2019
di Francesco Marilungo
Pane e Allah è la seconda opera di Giorgio Gigliotti, che segue e prosegue, ad una decina d’anni di distanza, il suo primo Hotel Allah (Coniglio editore, 2008). Un libro che attraverso undici brevi preludi (racconti che vanno dalle 4 alle 20 pagine) e un concerto in tre movimenti (quasi un romanzo breve di circa 100 pagine), compone davanti ai nostri occhi un affresco riuscito di un mondo variegato e complesso: quello della sponda sud del Mediterraneo. Lo fa dopo il 2011, dopo il passaggio di quel fenomeno complesso e diversificato nei risultati che continuiamo a chiamare “primavere arabe”. Ci porta dalla Palestina al Marocco, passando per Egitto, Tunisia e Algeria, ma con fili che riconducono anche al Kurdistan, all’Iraq, all’Afghanistan. E all’Italia, ovviamente.
Siamo lontani dall’oleografia, dalla cartolina esotica e stereotipica, lontani dai sapori banalmente speziati di tanta letteratura orientalista di consumo. Gigliotti sembra apprezzare (e in questo l’opera è una trasfigurazione letteraria della sua pluridecennale esperienza in quelle terre come giornalista e cooperante) le vite che travalicano, le storie che oltrepassano il confine geografico e mentale che separa quell’universo dal nostro, noi dal nostro più vicino “altro”. Storie che anzi scuotono la fasulla impressione di appartenere ad universi diversi e che mostrano invece i fili invisibili che ci annodano. La scrittura dell’autore ammira chi ha il coraggio di scavalcare dall’altra parte e mettere in discussione la propria immagine, per guardarla riflessa negli occhi dell’altro.
Ne sia testimonianza la dedica a Lorenzo Orsetti, fiorentino, ucciso a Baghouz in Siria a 33 anni nel marzo 2019, mentre dava il suo contributo alla lotta internazionalista di liberazione di quel pezzo di deserto dalle milizie del cosiddetto Stato Islamico. Dice così Gigliotti: “A Lorenzo Orsetti e a tutti quelli che per caso nascono tra i primi ma per scelta stanno coi secondi”. E dunque, questo libro, più che un ritratto di un mondo per noi vicino e distante, che affascina e che turba, è il racconto di quel filo sottile che ci lega ad esso, degli intrecci e dei viluppi che si creano quando oltrepassiamo la soglia. Col corpo, o con la mente, come facciamo grazie alle pagine di questo libro.
Il primo racconto, Il sogno e quelle donne, è quasi un campionario delle tragedie umane e storiche che percorrono il mondo islamico. In un viaggio trasognato vero l’oasi di Siwa, “la mistica d’Egitto”, il protagonista incontra donne che portano tutte lo stesso nome: Armida (ci porterebbe fuori strada ragionare su l’Armida di Tasso e su ciò che essa ha rappresentato nell’immaginario europeo in riferimento al mondo islamico, conferendogli un volto, appunto, attraente e conturbante; lasciamo fare, però, e scusate la parentesi). Donne, queste, che raccontano storie simili e dolorose: una Armida nata in Palestina e in fuga dal Kurdistan iracheno massacrato da Saddam; una Armida che arriva dalla lontana Kabul e in fuga dalla guerra; una Armida che viene dall’Algeria, in fuga dalle bombe dell’OAS francese (Organisation armée secréte). Eccoci calati, in meno di venti pagine e attraverso le voci delle donne, in quella geografia che è crocevia di sofferenze, di lutti, di sangue; dove si intrecciano, dolorose sulla pelle dei civili, violenza coloniale e resistenza. Adesso il libro può cominciare davvero.
Il racconto Anisa ci presenta un’altra importante vena di ispirazione del libro: la pulsione erotica e la sua negoziazione nello spazio pubblico e privato. Con Dégage toi, siamo in strada, a Tunisi, dentro la rivolta tunisina – e le sue contraddizioni – che porterà alla caduta di Ben Ali, primo atto delle primavere arabe e forse l’unico veramente riuscito, avendo condotto, a differenza di quanto accaduto in Libia, Egitto, Siria, Bahrein, verso una transizione democratica. Il guerriero di Dio traccia una linea parallela e opposta rispetto a quella di Lorenzo Orsetti. Ci racconta di Emiliano G., poi convertito e divenuto Ahmed Abu Bakr, napoletano, che si mette in viaggio per Raqqa, la capitale dello Stato Islamico, e si arruola nell’esercito dell’emiro Al Baghdadi. Nelle sue lettere ai genitori, Emiliano prova a spiegare il senso di quella scelta, della jihad concepita come “risposta ponderata a un occidente disumano, che sente vacillare i suoi valori, basati sul profitto e che impone le sue leggi con la forza” (p.51). Gigliotti prova a portarci dentro la mente di uno dei tanti foreign fighter partiti dall’Europa per dare man forte al Califfato, ma forse soprattutto per dare una risposta al vuoto esistenziale delle loro vite precarie e marginali in occidente. Muallim Sayd entra in un delicato rapporto culturale fra allievo e maestro, La scala e la cavalla, pasolinianamente, entra nel torbido erotico-pulsionale, nell’animalesco, nel complesso percorso di traduzione della pulsione libidinale in codici culturali e sociali. Lo straniero, forse l’unico racconto del libro percorso da un sottile senso di ironia, ci parla di chi è straniero in casa, di chi fa fatica ad adeguarsi ai codici e ai rituali della propria società: “essere un arabo sensibile il giorno dell’Aid è davvero una sventura” (p.83). La bomba ci porta dentro la più grande prigione a cielo aperto del mondo: Gaza, dove il rap in pubblico è proibito e dove si guarda al cielo come al luogo da cui un giorno o l’altro pioverà la morte. La zia Asha affronta il discorso dell’educazione scolastica e di una zia spiacevole. Il mio amico Nabil e La casa di Muhammed, ultimi due degli undici brevi racconti, toccano un tema poi ripreso nel racconto lungo: quello del turismo occidentale nel sud del Mediterraneo, del non detto erotico che porta con sé, e quindi degli equilibri di potere, di posizione, di rendita che una cultura impone all’altra, anche attraverso il mercanteggiamento del corpo.
Si arriva infine a Gli incantatori di Nefta (romanzo breve? racconto lungo? prova di romanzo in attesa di sviluppo?), la storia di Soliman, poi divenuto Alberto e poi tornato ad essere Soliman. Una storia a cavallo fra Tunisia e Italia. Soliman cresce nella provincia profonda del sud tunisino, dove la vita è legata all’oasi, alle palme e al carbone che si va a produrre ben dentro al deserto. Uno zio se lo prende con sé e lo porta in Italia, a Roma, con promesse di ricchezza. E lì, a Roma, Soliman diventa Alberto e sul terreno del corpo, del sesso, dell’amore, incontra l’altro territorio o il territorio dell’altro: incontra Elisa, pianista della piccola borghesia romana, sposata e con due figli… È lì che si gioca la vera dinamica dell’attraversamento della frontiera.
A condurci lungo questo percorso, c’è la scrittura ritmata e letteraria di Gigliotti. A tratti allucinata, abbagliata dal sole delle terre di cui parla, intervallata da miraggi che appaiono e si spengono, ricca di aggettivi che sfaccettano il sostantivo come una rosa del deserto. C’è gusto letterario, indagine filosofica, ci sono spunti di riflessione esistenziali scavati nel rapporto col paesaggio e la natura. C’è soprattutto, a trasparire da ogni pagina, una profonda conoscenza umana, quotidiana, una profonda consuetudine fra l’autore e il mondo che ci racconta. Testimonianza ne sia il nutrito glossario che, spiegando il senso di molte parole d’uso comune nel mondo islamico e magrebino, consente all’autore di usarle nel testo in maniera disinvolta, conferendo alla sua lingua la musica e il ritmo di quelle parole, e al lettore se non altro la possibilità di imparare qualcosa di nuovo. Di oltrepassare una barriera anche linguistica. Un libro per intenditori, per curiosi, per tutti coloro i quali sono stanchi della rutilante lettura geopolitica del Medio Oriente e del Nord Africa e desiderano andare un po’ più a fondo.