di Oscar Palessa
La punta di grafite attraversa la salita impervia del primo movimento senza intoppi, con il secondo crea il corpo di lettera, abbraccia il vuoto in una regolarità semicircolare, un dito medio contro Giotto e i suoi cerchi: una perfetta “a” corsiva è la prova d’artista definitiva. Mentre la testa si tende verso l’idea pura della lettera, la presa accompagna il pensiero, riflette l’estensione in tensione. L’indice si piega in un archetto che spinge sul legno e contro il metacarpo, la matita si fa quasi verticale, ma il piccolo cono nero si spezza proprio mentre sta scollinando, a metà del terzo movimento. La nera bava granulare si allarga in un ventaglio frastagliato e rovina il lavoro. Fermarsi al principio, a papà, senza nemmeno il tempo di mettere l’accento.
Me lo ricordo con le mani sporche d’inchiostro, sempre sporche d’inchiostro. Intorno alle mani ricostruisco la sua immagine: la mattina avvolte intorno al bicchiere e la domenica in chiesa mentre stringono il banco – con le nocche che si fanno pallide fra le macchie. Lo rivedo che guarda verso l’altare mentre la parola di Dio lo investe, lo ripulisce dai dubbi, ogni predica che si fa concime per il rifiorire di una certezza granitica. Ricordo le mani sporche all’ombra della lampada, strette intorno al pennino, che trascinano la china lungo il foglio. Mai una traccia o uno schizzo preparatorio – quelli bravi non ne han bisogno, diceva a mezza bocca, quasi nel dirlo potesse invertire causa ed effetto. Io intuivo che c’era dell’altro dietro la sua risposta, che la metà inespressa era più importante. Nel silenzio di quel non detto partoriva angeli dalle ali spiegate e asimmetriche, madonne con volti deformi solcati di lacrime, Cristi moribondi su croci dalle braccia troppo lunghe; la lancia di San Giorgio infilzata nel cuore del drago era identica a quella di Longino, ed entrambe erano storte.
Sarebbe morto intorno a mezzanotte, disoccupato e d’infarto, chino sul tavolo da disegno e senza aver mai usato una matita. Lasciava un’eredità di opere scadenti, grottesche e indelebili. L’elogio funebre avrebbe parlato di un uomo composto, retto, purtroppo non anche fortunato. Nelle parole del prete si sarebbe specchiato il malinteso domenicale che lui stesso si imponeva: la dedizione alla china come espressione di fede, la rigidità mentale ri-coagulata in rettitudine.
Papà.
Non beveva quasi mai. Ricordo una sera in cui lo fece e attaccò a parlare. Disegnare era come aprirsi le vene, disse, un sacrificio di quelli antichi; tempo che bruciava su un altare inclinato a quarantacinque gradi. La mano era guidata dall’alto, la ricompensa arrivava in forma di immagini. Mi chiesi cose ne avrebbe pensato un prete, di certi discorsi. Intanto lui beveva e alzava la voce, diceva che Dio gli parlava attraverso l’inchiostro e che solo un vigliacco – solo un vigliacco, maledizione!- avrebbe usato una matita. Se ogni cosa era la voce di Dio fattasi materia, nulla di quel che disegnava poteva essere sbagliato. L’ispirazione era sacra, infallibile. Quella sera pensai per la prima volta che forse mio padre era davvero matto.
Gli scrivo una lettera che non leggerà mai con una Staedtler 7B, giallo-nera, morbida, tedesca, su un quaderno dai bordi consumati che non ha ancora conosciuto l’inchiostro. Tutti i miei racconti sono scritti a matita. Ho in testa un cortocircuito di cui non so spiegarmi il senso. Matita, lapis haematites, giacché un giorno un fulmine è caduto dal cielo e ha svelato il mistero della grafite, ma prima di allora si usava altro, un ossido di ferro a cristallino trigonale – ematite, il colore del sangue tradotto nel nome. Vorrei poter risolvere la contraddizione dicendo che anche questo è sacrificio, nessuna codardia nel poter cancellare – si versa sangue con ogni strumento e la prova sta nel nome. Per mio padre sarebbe un trucco, un appiglio da azzeccagarbugli. Direbbe che disegnare è versar sangue, che il sangue non lo cancelli, e che quindi la matita è roba da vigliacchi e bestemmiatori. Punto.
Scrivo a mio padre che ho ventisei anni e settemila idee incerte sul futuro – diciotto mesi a giurisprudenza e laurea triennale in filosofia, uno stage diverso per ogni solstizio e, come ombrello autunnale, la partita IVA. La carcinogenesi delle opzioni avviene nel vuoto di un camino spento, nell’assenza di fuochi sacri e convinzioni furibonde. Ripenso alla bara e mi immagino le mani sporche strette lungo i fianchi, pugni chiusi e braccia rigide, la durezza dello spirito che ha contagiato il corpo. Una vita consumata lontano dal compromesso, a versar sangue sulla carta fino a svuotarsi il cuore e morire così – libero dal dubbio, povero in canna.
Scrivo a mio padre che ho ventisei anni, poche certezze e un quaderno pieno di cancellature. La mia confessione tardiva è un codice di errori infestato dalle ombre del cancellato, fantasmi di ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato. La matita compone una storia di indecisione, ma anche di possibilità. Cosa c’è di male nel voler stratificare il complesso? Papà ti scrivo per rinnegarti, o forse per capirti, non so perché ti scrivo ma una cosa è certa: sono quasi due ore che massacro questo foglio, e nero su bianco ci ho messo solo il tuo nome.
Immagine di copertina di Didì Gallese