di Daniele Pasquini
Come molte delle persone che nella vita hanno in qualche modo a che fare con i libri o con la scrittura, faccio sempre più fatica a trovare nella lettura un piacere puro. Posso lasciarmi trasportare dalla trama, riconoscere la bellezza o l’importanza delle tecniche dell’autore, la novità delle soluzioni narrative, i riferimenti, i rimandi, i richiami. Ma diventa quasi impossibile leggere semplicemente, senza che l’analisi finisca col trasferire l’atto su un piano di riflessione tecnica o critica.
Kent Haruf per me è stato, fino ad ora, un’eccezione benedetta. Ho letto per la prima volta un suo libro all’inizio del 2017, quando un collega mi consigliò Le nostre anime di notte (Our souls at night, pubblicato postumo negli USA nel 2015 e portato in Italia da NN due anni più tardi). Lo comprai e lo lasciai ad attendere sul comodino per settimane.
Una volta trovato il tempo di aprirlo lo divorai in un’unica commossa sessione di lettura. Non mi succedeva da anni. Certo, quell’opera di Haruf è breve, ma c’era qualcosa oltre al numero di pagine ad avermi coinvolto con un magnetismo a cui non ero più abituato. La semplicità del linguaggio? Il contrasto tra l’atmosfera crepuscolare e la disarmante franchezza dei dialoghi? Non capivo cos’era, ma qualcosa c’era.
Decisi di mettermi in pari, leggendo tutto quel che c’era da leggere. La “Trilogia della pianura” (Benedizione, Canto della pianura e Crepuscolo; ma “trilogia” è un termine che trae in inganno, lo stesso Haruf parlò di Loose Trilogy). Poi Vincoli, il suo primo romanzo. E infine ho chiuso la riscoperta – come tutti i lettori italiani – la scorsa estate, con La strada di casa (Where you once belonged), cronologicamente il secondo libro dell’autore, ma ultimo a essere pubblicato in Italia.
Terminata l’ultima pagina dell’ultimo libro mi sono sentito orfano. Non sarei più tornato a Holt, l’immaginaria cittadina del Colorado (ispirata a Yuma, forse) in cui sono ambientati tutti i suoi romanzi. Libri che mi sono goduto senza pensarci troppo, per paura di guastare tutto, come succede a volte quando scopri come è fatto il cibo di cui vai ghiotto. Sono passati quasi quattro anni da quando ho incontrato Haruf e vorrei provare, senza pretendere di riuscirci, a capire cosa abbia questo autore di così magnetico. Non so se sia davvero importante chiedersi perché si ama qualcosa o qualcuno. Forse è perfino sbagliato, ma mi sembrava giusto tentare, dato che quando parlo di “amare” Haruf non parlo di una questione privata. Serve una precisazione quantitativa per definire questo amore collettivo: La strada di casa in meno di sei mesi ha venduto più di 30mila copie. Le nostre anime di notte dalla sua uscita in Italia ne ha vendute 135mila. In totale i sei libri di Haruf pubblicati da NN hanno venduto in totale quasi 400mila copie. Quindi non parliamo di un caso, stando alle cifre del mercato editoriale si tratta di un vero e proprio best-seller.
Normalità ed eroismo.
Quelli che vivono a Holt sono personaggi fatti interamente di scorza, profili quasi stereotipati, che a tratti appaiono perfino piatti. Puro cliché. Ma la tipizzazione dei personaggi di Haruf è funzionale, ed è forse ciò che – tutto d’un tratto – ce li fa adorare. Haruf ci mostra come dietro a queste figure c’è sempre l’inaspettato pronto a emergere, la rivelazione della persona sotto al personaggio. Non succede solo al lettore, ma succede anche all’interno dell’immaginario di Holt: non ci sono solo un’insegnante, o solo un allevatore di bestiame. Ci sono persone, e Haruf è un maestro nel rivelarlo alla comunità della cittadina e a noi. La sua magia è un disvelamento privo di sentimentalismi, tutto show e pochissimo tell: è nei gesti e nei silenzi che i personaggi sono pronti a mostrarsi. Fanno pensare agli uomini a cavallo che abitano le frontiere e i ranch polverosi di Cormac McCarthy, abituati a vagare per giorni senza proferire parola. Ma quelli di Haruf inoltre sono anti-epici, senza avventura. Sono platealmente privi di interesse. Dell’eroico conservano solo una cosa fondamentale: fanno qualcosa di diverso da ciò che Holt si aspetta da loro. Sembra una cosa da niente?
Scrive Gianni Montieri su Minima e Moralia: “Holt è piccola, i suoi abitanti si conoscono tutti e sanno ogni cosa capitata, detta o taciuta, al vicino di casa, al collega di lavoro. Sanno chi è ammalato, sanno chi è in difficoltà economiche. Conoscono i movimenti notturni, chi va di notte a casa di chi. Sanno ogni gioia e ogni disperazione. Conoscono che strada ha preso chi è partito, chi su quella strada ce lo ha messo. Sperano in qualche ritorno e sperano che qualcuno non veda il cartello con la scritta Benvenuti a Holt mai più”.
In altre parole: Holt è una rete invischiante che si autoalimenta, dove tutto è talmente ordinario che ogni minima deviazione diventa una miccia narrativa. Per i vicini di casa, per chi beve alla taverna, per quelli che cantano in chiesa, ma soprattutto per noi.
Holt è un social network.
Questa dimensione pubblica che si alimenta del privato mi fa pensare all’infanzia dei miei genitori, o addirittura dei miei nonni, a un’Italia provinciale. Eppure è una way-of-life tornata nostra (e questo Haruf non poteva saperlo) con l’affermazione della vita digitale e la costruzione di un’identità attraverso i social. Ciascuno di noi impara il proprio ruolo conoscendo i connotati degli altri, le reazioni che suscitano i nostri comportamenti online. E viviamo di conseguenza, in una più o meno inconsapevole sottomissione al giudizio. Forse l’eroismo in Haruf – ciò che ci fa commuovere – è la ribellione dei suoi personaggi ai ruoli che Holt gli cuce addosso. Due vedovi che si avvicinano nonostante i pettegolezzi, due fratelli scapoli che accolgono in casa una ragazzina incinta. Vivere ai margini della cittadina significa essere alla periferia della rete, andarsene da Holt vuol dire smettere di esistere, mettere in pausa il proprio profilo. Che sia questo a farci amare Haruf, la possibilità di essere effettivamente diversi da come ci sentiamo rappresentati?
Non si trova un posto per Haruf.
La lingua di Haruf è semplice. Addirittura potremmo affermare che va semplificandosi in corso d’opera. Nell’esordio Vincoli, fa notare Fabio Cremonesi, traduttore di tutti i suoi libri per NN, l’autore deve ancora far conoscere Holt ai propri lettori: più avanti ne avrà sempre meno bisogno. Le pagine si asciugano lungo la Trilogia, dove comunque alla “sobrietà francescana” di Benedizione (espressione sempre di Cremonesi) risponde il periodare più ampio e articolato di Canto della Pianura.Fino ad arrivare a Le nostre anime di notte, dove la narrazione è più che asciutta, è disidratata. Ma va pure detto che Haruf scrisse il suo ultimo libro consapevole di essere vicino alla morte: c’era urgenza di dire tutto in fretta.
Appare quasi logico partire da questo tratto distintivo, da questa misura frugale, per comprendere Haruf. Però questo ci dice come scrive, non perché ci piace. Non amiamo un autore solo perché è facile.
Forse gli argomenti, anche se pensandoci l’autore stuzzica i grandi temi (la morte, il senso di colpa, il perdono, il giudizio e l’accettazione) ma lo fa concentrandosi sempre su questioni di poco conto: pettegolezzi, scaramucce, vergogne, sensi di colpa, piccole rivendicazioni. Ci rivediamo in tutto questo, è ovvio, ma non può essere che milioni di persone in tutto il mondo si siano esaltate per sei romanzi di questo. E nemmeno l’interesse storico, o sociale: c’è la working class in Haruf, c’è pure la middle class. Ma quanti altri lo hanno fatto, e meglio? Haruf colloca i propri libri in dimensioni praticamente atemporali. Se non fosse per particolari e rare intromissioni della storia potremmo essere negli anni ‘50 come negli anni ‘90. Niente grande storia americana, quindi.
Viene allora da guardarsi intorno, per raccapezzarsi. Ogni tanto spuntano fuori confronti con McCarthy (io stesso ci sono caduto poco fa), a volte con Hemingway e Faulkner (ma dai…), con Carver o con Yates. O pensando alle periferie, salta fuori Chris Offut. In realtà sono tutti accostamenti impropri, e i tratti di convergenza sono limitati e a volte pretestuosi. Qualche giustificazione in più ce l’ha l’accostamento con Stoner di John Williams, altro capolavoro recuperato tardivamente. Ma in generale, la cosa più semplice e onesta da fare è constatare che Haruf è una cosa che si comprende più per differenza che per analogia.
Altezza e peso.
Oltre ai citati confronti con i maestri americani, Haruf appare davvero minuscolo rispetto ai ai “creatori di mondi” degli ultimi anni. Paolo Bonari qualche anno fa recensendo Le nostre anime di notte su La balena bianca scriveva: “Ciò che crea attrito, infatti, è la semplicità dei sentimenti e la convinzione che, con essi, sia esaurito il compito letterario, in un panorama che si è popolato di romanzoni che sembrano risentire della grammatica, e non semplicemente dell’estetica, dei videogames: si assiste alla risorgenza di numerosi postmoderni locali che vanno da quello latinoamericano di Roberto Bolaño, con le sue specificità continentali, a quelli di Mircea Cărtărescu, Vladimir Sorokin e László Krasznahorkai, fino al post-esotismo di Antoine Volodine, che recuperano una bandiera già usata dagli statunitensi, in primis dai progenitori Barth e Pynchon”.
Una riflessione che mi ha fatto ricordare un bel testo scritto qualche anno fa da Luca Pantarotto, che oggi lavora proprio per NN Editore. Nella sua raccolta di saggi Holden&Co. (Aguaplano) parlava di Haruf usando l’espressione paradossale “ribellione dell’antiribellione”, rifacendosi a un’analisi di D.F. Wallace a proposito dell’abuso di ironia. Wallace in un saggio intitolato E Unibus Pluram: gli scrittori americani e la televisione si opponeva agli scrittori di maniera, paralizzati in una critica sterile, e individuando una possibile via di uscita in narratori poco trendy, repressi, anacronistici, sorpassati. Senza volerlo, la descrizione di Haruf.
Ecco, l’autore di Pueblo più che un minimalista è un anti-massimalista, racconta il particolare in modo ossessivo fino a farci scordare il resto, come se nient’altro fosse importante. Non esiste la tv, non esiste il mondo. Più che la statura storica, di Haruf avvertiamo il peso specifico. La sua opera non è un esercizio di riduzione, ma di concentrazione. La perizia e la caparbietà ossessiva con cui ha insistito nel portarci in giro per il suo mondo, ci fa capire che lo spazio della cittadina non è il limite narrativo a cui ha ceduto, ma un orizzonte di senso possibile che ha voluto mostrarci.
A suo modo, un costruttore di mondi.
In appendice a Le nostre anime di notte c’è una mappa di Holt. La prima volta che l’ho vista ho stentato a capirne il senso. Mi sembrava un vezzo presuntuoso e ridicolo. Pensando alla Terra di Mezzo, a Narnia, all’Utopia di Tommaso Moro. Ai creatori di universi, ai romanzi-mondo.
Che un senso c’è lo si intuisce meglio dopo aver letto tutti e sei i libri scritti da Haruf in 30 anni (tra il 1984 e il 2015), e in particolare dopo aver frequentato i tre romanzi che compongono la Trilogia. Inquadrando la sua opera da lontano, scopriamo che la grandezza dello scrittore di Pueblo è stata proprio aver costruito un unico recinto entro cui mettere in scena tutta la propria opera. Tutto converge lungo Main Street, la sola fuga possibile è svoltare sulla Highway 34 e andare in aperta campagna – per guardare Holt da fuori, dalla prospettiva marginale dei campi e dei granai – o perdersi a Denver, la grande città, il luogo in cui la comunità finisce e tutto si smarrisce: i personaggi, i lettori, l’umanità.
Anche Haruf è un costruttore di mondi. Solo che Holt è un universo piccolo, e forse è a partire da questa unità di misura che va valutato Haruf. Non ha senso compararlo ai giganti che lo hanno preceduto o seguito: ha giocato con le sue regole e cavato grande letteratura da un buco pieno di polvere.
La letteratura non risolve problemi e non cambia il mondo, ma può orientare cuore e occhi. Haruf non ha spostato in avanti i limiti del possibile, è un autore anti-rivoluzionario. Ma forse lo amiamo perché ci fa bene, perché dal suo universo in scala ridotta scopriamo che restringere il campo non è un modo per rifiutare la complessità, ma per avere un punto di vista privilegiato. Per imparare a osservare meglio e provare a capirci qualcosa.