di Daniele Pasquini
Ci piace credere di aver riscoperto uno scrittore intimo e poco più che anonimo, ma le cose non stanno così.
Del caso John Edward Williams sembra sia stato detto tutto. Soprattutto si è parlato tantissimo di Stoner, romanzo del 1965 che negli ultimi anni ha avuto una seconda, clamorosa, accoglienza critica e un successo pazzesco di vendite. Una cosa piuttosto incredibile, dal momento che Stoner è un libro che fa di tutto per sembrare ordinario.
Riassunto in pochi cenni, parrebbe trasudare noia da tutti i pori: William Stoner nasce in Missouri da una famiglia povera, aiuta il padre nei campi finché non decide di iscriversi alla facoltà di agraria. Scopre la letteratura, ne rimane affascinato e abbandona il vecchio percorso di studi, fino a diventare un professore di Lettere. Scrive un libro del tutto trascurabile. Ha due soli amici. Un matrimonio infelice, piccoli conflitti accademici. Una figlia, un tradimento, l’arrivo della vecchiaia.
Nonostante questo, anzi proprio per questo, Stoner è un capolavoro, un concentrato di tensioni emotive, uno di quegli squarci inaspettati che solo la grande letteratura è capace di aprire su un’esistenza apparentemente priva di senso.
L’eco della tardiva riscoperta ha alimentato nei lettori – anche in me, lo confesso apertamente – l’impressione che la carriera di Williams fosse stata simile in tutto e per tutto a quella del prof. Stoner: anonima e invisibile, tuttalpiù riconosciuta in un circolo ristretto. La sovrapposizione tra autore e personaggio non è del tutto ingiustificata, dal momento che lo scrittore e il protagonista di Stoner hanno condiviso origini umili e una cattedra in Missouri. E un certo gusto per la mimesi l’autore texano ce lo ha sempre avuto, anche nei suoi primi romanzi (Nulla, solo la notte e Butcher’s Crossing, sempre editi da Fazi), dove il protagonista si chiama William o Willy.
In realtà John E. Williams, morto nel 1994 a 72 anni, a differenza del suo personaggio più famoso il successo lo ha conosciuto. Non è stato un invisibile: con il suo quarto e ultimo libro, Augustus, vinse il National Book Award del ‘73 (ex aequo con John Barth), raccogliendo la palma del vincitore da Flannery O’Connor e cedendola l’anno successivo a Thomas Pynchon. E’ un dato che riporto non per gusto aneddotico, ma per segnalare che Williams ha vissuto e ottenuto riconoscimenti tra quella gente lì. E’ stato rapidamente scordato, forse perché visse in un’epoca di mostri sacri e di riformatori?
Per chiarire il periodo: Williams è nato nel 1922, coetaneo di Jack Kerouac e Grace Paley; è venuto al mondo tre anni dopo Salinger; due dopo Bukowski e Ray Bradbury; due prima di Truman Capote. Forse il nostro immaginario è stato occupato da scrittori famosi e meravigliosi che hanno eclissato quella di un romanziere eccellente ma poco prolifico e tutt’altro che mitico? Forse abbiamo un problema di memoria a breve termine? Non lo so.
Augustus, ovvero John Williams in maggiore.
Ma c’è un altro aspetto che spiazza il lettore entrato tardivamente in contatto con Williams attraverso Stoner. Lo si immagina come un autore intimo, vocato al tono minore, spaventato dalla storia e ancorato nella provincia americana. Augustus ribalta definitivamente questa prospettiva: non solo è un libro premiato, ma è un romanzo dedicato alla storia di Ottaviano Augusto, imperatore romano, trionfatore del mondo antico. E a dispetto del numero di pagine (409 nell’ultima edizione di Fazi, trad. Stefano Tummolini) lo si potrebbe addirittura definire un kolossal, per portata e audacia.
Scritto nell’arco di un lustro abbondante in un percorso sfiancante che portò l’autore a congedarsi momentaneamente dal mondo accademico, Augustus è un’impresa mirabile per struttura, profondità e stile. Augustus è costruito come un romanzo epistolare. Attinge alle fonti e le ricombina con libertà per raccontare l’ascesa al potere del nipote di Cesare. È un romanzo storico in cui per stessa ammissione dell’autore la finzione ha un ruolo preponderante:
“Tranne poche eccezioni, i documenti che costituiscono questo romanzo sono frutto della mia invenzione: ho parafrasato molti brani delle lettere di Cicerone, ho rubato brevi passaggi delle Res Gestae di Augusto, e ho copiato un frammento di un volume perduto delle Historiae di Livio tramandato da Seneca il Vecchio. Ma se vi sono delle verità in quest’opera, esse appartengono alla finzione più che alla storia.”
Williams pecca di modestia, perché le verità che appartengono alla storia non sono così poche.
Al di là di alcune evidenti manipolazioni cronologiche e di fatti scientemente alterati, Augustus è un libro che racconta molto sulla morte di Cesare, sul rientro a Roma di Ottaviano Augusto e di tutta la lunga lotta per il potere, fatta di campagne militari, guerre sui confini, menzogne, violenze e cospirazioni. Le forzature ci sono, così come scelte discutibili (ad esempio la morte di Cicerone). Ma dove Williams ha forse osato di più è nella modernità psicologica dei personaggi. Le testimonianze e le missive che si scambiano Mecenate e Tito Livio, le memorie di Marco Agrippa o il diario di Giulia, sono testimonianze troppo poco credibili nel tono e nello spessore. Ma anche questo, va detto, non ha niente di posticcio, è gestito con una coerenza mirabile e va tutto a vantaggio della tenuta del romanzo.
E poiché il libro è godibile e avvincente – a prescindere dal vostro interesse o dalla vostra conoscenza della storia antica – credo sia inutile indugiare oltre su questi aspetti. Mi concentro sulle pagine finali, quelle in cui l’autore, costruito l’impero, si trova a dover tracciare un epilogo. Ottaviano Augusto, prossimo alla morte, scrive delle lunghe lettere a Nicola di Damasco, unico amico ancora in vita, e gli consegna quello che a tutti gli effetti ha l’aspetto di un testamento spirituale, di un memoriale venato di profezia.
“Oggi l’ordine di Roma prevale ovunque. Certo, il nemico attende: a nord i barbari germanici, i parti a est, e gli altri al di là di frontiere che ancora neppure immaginiamo; e se Roma non cadrà per mano loro, lo farà per mano di quel barbaro da cui nessuno sfugge – il Tempo. E tuttavia, per il momento, il nostro ordine prevale (…). Ho fondato scuole in ogni parte del mondo, per diffondere ovunque la lingua latina e i costumi di Roma (…): le nostre leggi temperano la crudeltà e il disordine dei costumi delle province, e questi a loro volta modificano le leggi di Roma (…)”.
E poi:
“Roma non è eterna: non importa. Roma cadrà: non importa. Ha avuto il suo momento, e quel momento vivrà nella Storia; conquistandola, il barbaro diventerà Roma stessa; il latino addolcirà la sua rozza lingua; la visione di quanto avrà distrutto rimarrà nel suo sangue. E alla luce del tempo, che scorre senza sosta come questo mare, su cui vago sospeso, quel prezzo è nulla, meno di nulla”.
È abbastanza palese che qua la verità della finzione di Williams non è una verità su Roma, ma una verità sul potere e probabilmente una verità sull’America. La consapevolezza che l’imperatore ha del destino del proprio regno sa di predizione più che di presagio. Un grande romanziere non sarebbe caduto in un simile trappolone, se non avesse voluto farlo: viene facile pensare che la consapevolezza sul destino dell’Impero sia la consapevolezza dell’autore, e non del personaggio, intorno alle sorti del proprio Paese.
L’impero non contempla il tramonto.
Lasciando per un momento in disparte la Roma Augustea, facciamo un salto nell’America contemporanea. Lo scorso 6 gennaio, dopo l’assalto al Campidoglio a Washington, come molti mi sono ritrovato a scorrere siti di news e analisi sui social network. Immerso nel flusso, in modo improvviso mi è tornata in mente, inaspettata, una riflessione di Nicola Lagioia contenuta nell’introduzione a Proprietà privata, una raccolta di racconti di Richard Yates (Minimum Fax, 2012). L’autore rifletteva sull’incapacità degli americani di rappresentare sul grande schermo il proprio declino e sulla loro difficoltà nel riconoscere i propri peccati:
“(…) tre gigantesche omissioni saltano facilmente agli occhi: non è mai stato fatto un vero kolossal su Hiroshima e Nagasaki; non è mai stato fatto un vero kolossal sul genocidio dei nativi; non è mai stato fatto un vero kolossal sulla caduta dell’antica Roma. E’ come se, a livello di cultura condivisa, gli Stati Uniti (da Moby Dick in giù) non fossero in grado di elaborare le proprie colpe più gravi se non in forma allegorica; e il timore della propria fine (da Armageddon in su) se non per una via talmente didascalica da rasentare la farsa”.
I fatti di Capitol Hill – tra le tante analisi – hanno palesato a livello mondiale l’inconsistenza di un’illusione americana: quella di una democrazia, autoproclamatasi la migliore del mondo, che continua ad affannarsi contro la minaccia dei barbari (russi, islamici, messicani, cinesi) e che nel professarsi grande e orgogliosa non riconosce la vera natura della propria crisi.
Per non perdere il filo, provo ora a ricombinare i pezzi che mi sono trovato sparsi di fronte: la diretta mondiale da Washington; l’incapacità di riconoscere la faglia nel cuore di un paese; il romanzo di John E. Williams.
Sono tornato così alla lunga lettera finale di Augstus. Chiaramente Williams non poteva avere in mente l’America di oggi, né BLM, né Trump, né Qanon. Però l’autore texano scrisse il romanzo negli anni che seguirono l’assassinio di Kennedy, sotto le presidenze di Johnson e Nixon. In piena Guerra Fredda, all’apice dell’orrore vietnamita, dando alle stampe il volume nell’anno dello scandalo Watergate. Che fosse questa la verità storica che Williams voleva far raccontare all’imperatore di Roma? Raccontando l’età augustea l’autore voleva raccontare il proprio tempo? È l’impero americano il vero soggetto del suo romanzo?
Rileggere Augustus sotto questa luce non è un azzardo. Il romanzo di Williams è una riflessione sul potere politico, sul dolore degli uomini e sulle loro scelte. Nel raccontare Roma riflette sull’America.
Gli USA dai conflitti mondiali in poi hanno rafforzato il proprio potere egemonico su buona parte del globo, con campagne militari, con politiche economiche aggressive, con il cosiddetto soft-power. Ma con l’eccezione dell’attentato alle Torri Gemelle, le crepe più profonde della storia americana sono arrivate dall’interno: lotte fratricide, fanatismi, discriminazione e disgregazione sociale. Una lenta ricomposizione demografica ha portato le minoranze a essere non più marginali ma dominanti, ha posto in conflitto le identità in gioco mentre l’iniquità di un sistema ipercompetitivo ha esacerbato la lotta per il potere.
Anche se l’America degli anni ‘70 non è l’America di oggi, è d’obbligo pensare ad Augustus come ad un romanzo sul trionfo umano, sul dominio terreno, sull’ordine, la violenza e il dolore che precede e segue la gloria. Ed è strabiliante perché le questioni che pone parlano al pubblico di oggi come e più di quanto non sia riuscito a fare cinquanta anni fa. Williams davvero non poteva saperlo. Ma è questo uno dei doni collaterali della verità della finzione, della grazia dei grandi romanzi. Che la storia straborda oltre sé stessa, oltre il prevedibile, prescinde i tempi e ci raggiunge ovunque, oltre la propria fine.