di Deborah Foss
Attaccare una corda al lampadario e impiccarsi.
Non sono riuscito a portarli tutti qui, i miei libri. Molti sono rimasti a casa di mio padre, ma li so quasi a memoria. Quando cito qualche passo tutti mi guardano e strizzano gli occhi. Non colgono, non ricordano. Ignoranti.
Il monolocale è appena decente, non potevo avere di meglio visto l’affitto che posso permettermi. Ma lo spazio per Neve c’è e lei è buona e paziente, anche se è una lupa che ha lasciato il branco.
– Non è un cane un po’ strano? – mi ha chiesto la padrona dell’appartamento, squadrando me ma fingendo di guardare lei.
– No, signora – ho risposto io, – forse quella strana è lei, che si è comprata questo buco che non vuole nessuno.
Scoprendomi disposto a pagare subito, ha dimenticato le mie parole e ora sono qui, nella stanza con divano letto e cucinino che dà sulla piazzetta del paese. La domenica guardo dalla finestra gli ultimi vecchi che ancora vanno in chiesa e intanto bestemmio a voce alta. Spero sempre che guardino verso di me e leggano il labiale.
Aprire l’armadietto dei medicinali e ingoiarli tutti.
Il tavolo è abbastanza grande per appoggiare i libri e i compiti da correggere. Al centro c’è spazio anche per il vaso dove butto ogni giorno le cianfrusaglie che sequestro ai miei studenti. Non vogliono capire che durante le lezioni devono stare in silenzio e seguire i miei ragionamenti. Gli oggetti più leggeri non finiscono nel vaso, perché cadono per terra in classe quando glieli lancio per richiamarli. Il preside mi ha fatto presente che esistono approcci educativi più moderni, ma non capisce niente di pedagogia e didattica.
Capirebbe la validità del mio metodo se provasse anche lui la soddisfazione di guardare 23 ragazzini con gli occhi sbarrati e lo sguardo fisso mentre vengono svelati loro i riferimenti teologici della Commedia. Il silenzio che cala in classe è divino e diventa celestiale quando accendo in sottofondo un po’di musica classica per accompagnare la mia voce.
I genitori sembrano perplessi. Vengono da me, mi puntano gli occhi addosso, si avvicinano troppo.
– Professore, mio figlio torna a casa sconvolto. Dice che lei parla, parla, parla e non segue i programmi. Si arrabbia, urla. Cosa sta succedendo?
Io cerco di rassicurarli. Distendo il viso, ammorbidisco la voce, trovo parole semplici per le loro menti semplici.
Prendere una lametta e tagliarsi le vene.
La mattina, quando arrivo al lavoro, le persone non mi guardano, non mi parlano. Cammino veloce, per rendere credibile la loro indifferenza.
Ma poi bisbigliano in sala insegnanti, appoggiano le orecchie alla porta della mia aula, frugano nel mio armadietto, come bestioline curiose.
Prima, con loro, parlavo. Rita, l’insegnante di inglese alta e con le tette grosse, si divertiva a discutere con me i difetti delle traduzioni di Coleridge. Poi la conversazione scivolava.
– Che meraviglia parlare con te! Ma come ha fatto uno con la tua cultura a impantanarsi in una scuoletta di provincia? Dovevi insegnare all’università!
Io le guardavo le tette e ero sul punto di risponderle: – Che meraviglia parlare con te! Ma come ha fatto una con le tue tette a impantanarsi in una scuoletta di provincia? Dovevi fare la puttana!
Ora si sono trasformati tutti in ultracorpi senza memoria. Li compatisco: la debolezza del loro spirito li rende vulnerabili alla mistificazione.
Salire all’ultimo piano di un palazzo e buttarsi di sotto.
Qualcosa è cambiato anche nei miei amici, quelli della compagnia dell’università. L’aperitivo del venerdì non si fa più. Ora, dicono, hanno famiglia, ma non dovrebbero perdere la voglia di divertirsi.
Allora sono io che vado da loro: qualcuno mi ha fatto capire che l’ora di cena, soprattutto quando ci sono bambini piccoli, non è la migliore, ma io mi sento un messaggero, so di aiutarli a fare chiarezza nelle priorità della loro vita.
A volte non sentono il campanello, probabilmente il volume della tivù è troppo alto. Allora li chiamo per farmi aprire ma non sentono neanche lo squillo del telefono.
L’altra sera sono andato da Maria. Mi ha fatto salire. Mi ha ricevuto sul pianerottolo. Dall’appartamento usciva un tanfo di broccoli lessi che investiva anche il suo corpo. Quando gliel’ho fatto notare, mi ha risposto che io puzzavo di officina meccanica.
– Vengo da casa, non da un’officina.
– Forse non ti lavi da un po’, forse stai troppo con il tuo cane.
– È una lupa.
– Va’ via. Ora non posso farti entrare. Stiamo cenando. Senti… non venire più, non telefonarmi più, non scrivermi più. Mi togli il respiro.
– Perché? Una volta non ti dava fastidio.
– Se non capisci, fingi che abbiamo litigato, così avrai un perché.
Procurarsi una pistola e spararsi in bocca.
L’odore che mi investe quando rientro a casa è diverso dal solito. È puzza di pelle stanca e sfatta che nessun profumo riesce a nascondere. Solo la luce della cappa è accesa e cade obliqua sul viso di mio padre seduto al tavolo.
– Come hai fatto ad entrare?
– Mi hai dato tu una copia delle chiavi.
La voce è tranquilla e le mani non tremano, solo il respiro sibila un po’.
– Cosa vuoi, papà?
– Ho ricevuto tante telefonate. Sono tutti preoccupati per te, e anch’io. Non sei più venuto a trovarmi – dice osservando Neve che mi accarezza le gambe.
– Che cosa ti hanno raccontato? La gente si costruisce le proprie verità per viverci dentro e starci comoda.
– La gente racconta ciò che vede e sente. E si accorge se il vento cambia e arriva burrasca.
Mio padre fa un respiro profondo e mi guarda negli occhi. – Hai smesso di prendere le tue medicine, vero? Il dottore mi ha detto che non gli hai più chiesto il rinnovo della ricetta.
Scuoto la testa, non lo voglio ascoltare. Alzo la voce perché senta bene le mie parole. – Vuoi capire che non sono malato? Non ho bisogno di quelle pillole maledette. Senza, tutto è limpido, chiaro, trasparente. Le parole da dire mi arrivano svelte come le palle di un flipper e sono lucide e rotonde come una volta.
– Ma ti comporti in modo strano, a scuola non ti fanno più entrare, vai nelle case a disturbare… Anche adesso: parli con gli occhi chiusi, gesticoli, continui a toccare il tuo cane. Guàrdati.
– Non è un cane, è una lupa. – La voce esce roca e scura.
Mio padre appoggia le mani sul tavolo per darsi la spinta e si alza dalla sedia. Deve aver capito che insistere ancora non serve. Si avvicina e cerca di abbracciarmi, ma lo spingo via. Le sue braccia ossute di vecchio mi fanno schifo e non voglio sentire il suo odore.
Apre la porta e se ne va.
Mi avvicino alla finestra per guardarlo mentre si allontana illuminato dai lampioni della piazza. Il passo è lento ma sicuro, penserà di aver fatto il suo dovere di padre.
Appoggio la fronte al vetro e osservo il mio volto da quella posizione. Gli occhi sbarrati striati di rosso, le guance annerite dalla barba di giorni, i capelli che ungono il vetro.
Finalmente decido.
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Deborah Foss (1973) è nata e vive a Rovereto (TN). Si è laureata in Lettere moderne a Bologna con una tesi sul linguaggio persuasivo. Ha lavorato come giornalista pubblicista per il quotidiano “Alto Adige” e ora insegna italiano, storia e geografia nella scuola secondaria di primo grado.
[Immagine di copertina: Insane, Grae Dickason]