di Mattia Cecchini
Io e mia madre non eravamo persone originali. Le nostre paure erano abbastanza patetiche: io avevo paura del buio, lei di vedermi morire.
Diceva che era colpa della zia Adele. Non l’avevo conosciuta la zia Adele, morì quando era bambina. Tossiva e sputava sangue, finché un giorno ne sputò troppo e rimase con la testa a ciondoloni nel gabinetto. Dopo averla seppellita, la nonna Lella, sua madre, prima smise di parlare, poi di cucinare. Allora il nonno Sauro, che tornava sempre guasto dal cantiere, la picchiava con le grosse mani callose. Ma lei restava zitta e non piangeva e non si lamentava. Così il nonno si stufò, e iniziò a picchiare mia madre, che ancora era piccina e aveva la testa più piccola delle mani del nonno. E mentre mia madre piangeva e si lamentava, la nonna Lella rimaneva zitta. Poi una sera il nonno Sauro tornò più tardi dal cantiere, ed era accompagnato da due uomini con l’uniforme bianca. Presero la nonna sottobraccio e lei, sempre muta, si lasciò portare via. È per questo che la mamma aveva paura di vedermi morire: perché si ricordava quanto aveva sofferto la nonna Lella quando le morì la figlioletta. Ma secondo me, in fin dei conti, aveva solo paura di fare la stessa fine di sua madre.
Io invece non lo so perché avevo paura del buio.
Una sera mia madre mi prese sulle ginocchia e mi disse che non potevo più dormire in mezzo a lei e al babbo. A sei anni ero già diventato troppo grande. Mio padre, in piedi dietro di noi, mi promise che avrei avuto una camera tutta per me.
Pochi giorni dopo arrivarono due grossi scatoloni con dentro il letto a castello. Mio padre passò tutto il pomeriggio ad avvitare e montare e io, la notte, m’infilai nel letto in alto. Lui mi rimboccò le coperte e mia madre, dritta sulle punte, mi baciò la fronte. Sei un vero uomo ormai, disse, poi se ne andarono.
Prima di uscire dalla stanza spensero la luce. Mentre chiudevano la porta vidi la luce del corridoio diventare una lama sempre più sottile; poi sparì del tutto e la porta era chiusa.
Buio.
Urlai.
Tornarono.
La mia stanza rimase vuota e io continuai a dormire in mezzo ai miei genitori. Ogni sera mia madre cercava di convincermi, provava con la porta socchiusa, ma io scuotevo la testa e dicevo: domani. Lei allora pregava mio padre di aiutarla e lui alzava le spalle, crescerà.
Il tempo passava e io crescevo ma avevo sempre paura. Mia madre si lamentava con mio padre, non crescerà mai così, e lui alzava sempre le spalle, dagli tempo.
Una notte mia madre decise che non c’era più tempo da darmi e mi trascinò in camera. Mi mise a letto e mi ordinò di non alzarmi fino al mattino dopo. Devi affrontare le tue paure. Fuori una mandria di tuoni ruggiva.
Vidi la luce del corridoio, questa volta sembrava uno strappo, come cucita assieme da lembi di buio. La mamma sbatté la porta e la luce sparì del tutto.
Buio.
Urlai.
Non tornò nessuno.
Urlai più forte.
Non tornò nessuno.
Non smisi più di urlare.
Arrivò mio padre.
Il giorno dopo era domenica. Il babbo si era svegliato presto per andare a pescare. Io stavo rannicchiato sul divano, guardavo la televisione con gli occhi gonfi dalle lacrime della notte. La mamma si sedette accanto a me e mi accarezzò le guance con la mano gelida.
– Scusa per ieri notte.
Non sapevo cosa rispondere.
– Lo faccio per il tuo bene. Non puoi avere paura del buio per sempre.
– Magari quando sarò grande non avrò più paura, – le dissi.
– Se non facciamo qualcosa ora tu diventerai grande e avrai ancora paura del buio. E l’unico modo per sconfiggere le paure è affrontarle.
Mentre parlava mi passò la mano vicino all’orecchio, come per accarezzarlo. Poi l’artigliò. Lo sentii infuocarsi. Mi trascinò verso lo sgabuzzino e mi buttò dentro con una spinta. Chiuse la porta a chiave.
– Ti farò uscire quando smetterai di piangere. – disse.
Prendevo a pugni la porta. Strillavo. Davo calci per terra.
– Affronta le tue paure e le sconfiggerai.
Senza smettere di piangere cercai l’interruttore della luce. Non funzionava. Mia madre aveva tolto la lampadina.
Rimasi chiuso nello sgabuzzino tutta la mattina. Quando mi tirò fuori, mia madre comandò:
– Non ti azzardare a dire niente a tuo padre. – un dito era puntato contro di me, e l’altra mano mi tirava il collo della maglietta.
La sera, mentre la mamma faceva il bagno, andai piano da mio padre. Stava pulendo i pesci. Gli raccontai tutto. Il babbo corse in bagno, tirò fuori dalla vasca la mamma e le urlò di chiedermi scusa.
– Te lo scordi. – fu la sua risposta.
E il babbo la prese a schiaffi con le mani che puzzavano di pesce.
Il turno della mamma per prendere a schiaffi qualcuno era il pomeriggio dopo, mentre il babbo era in ufficio.
Questo perché sei un codardo, e mi dava uno schiaffo, questo perché sei uno spione, e me ne dava un altro, poi ricominciava. Smise solo per cacciarmi di nuovo dentro lo sgabuzzino. E questo perché devi crescere.
La paura del buio non passava, e io volevo scappare da casa. Rimanevo chiuso nello sgabuzzino quasi ogni giorno, sempre più a lungo, ogni volta che il babbo non c’era. E il babbo non c’era sempre più spesso, finché una sera fu lui a scappare da casa. Sulla soglia della porta mi promise:
– Non ti lascerò da solo con quella matta, – mi abbracciò. – Verrò a riprenderti.
Invece a riprendermi non ci è mai venuto, e la mamma ha continuato a chiudermi nello sgabuzzino. Perché avevo gli occhi cattivi come quelli di mio padre, perché mettevo la carta igienica dal lato sbagliato, perché i pantaloni li tenevo troppo a vita bassa, perché ero secco come mio padre, perché quando apparecchiavo invertivo il coltello e la forchetta, perché le camicie che lei mi stirava mi stavano male addosso.
Alla fine, rimanendo con quella matta, come la chiamò lui, mi sa che il matto sono diventato io. Ho ancora paura del buio. Non ho mai fatto l’amore con la luce spenta. Al cinema o a teatro non riesco ad andarci.
L’anno scorso l’ho passato in una clinica. Mia moglie aveva chiamato l’ambulanza, strillando, dopo avermi trovato in bagno mezzo dissanguato. Una rotella doveva essersi guastata del tutto: ero convinto di non poter sopportare nemmeno il buio di quando chiudevo gli occhi. Così mi tagliai le palpebre.
Stasera mia madre verrà a cena da me e festeggeremo insieme l’uscita dalla clinica. Mia moglie non ci sarà, dopo l’incidente ha chiesto il divorzio, giurando di aver paura a stare con me. Non ci sarà neanche la bambina, mia moglie l’ha portata via con sé, dicendo che sono pericoloso. Ma credo che sarà comunque una bella serata. Tra un paio d’ore mia madre entrerà da quella porta e mi vedrà impiccato a questa trave.
Io avrò superato la mia paura.
E lei dovrà affrontare la sua.
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Autore: Mattia Cecchini nasce a Città della Pieve nel 1992 e ci vivrà solo per qualche giorno. Si laurea nel 2014 in Tecniche di radiologia medica e nel 2017 si trasferisce a Berlino. Lavora in un ospedale vicino allo zoo e partecipa a vari laboratori di scrittura creativa. Nel 2020 un suo racconto è tra i vincitori del “Concorso letterario Racconti Umbri”. Altri racconti sono apparsi quest’anno su Rivista Blam e Split. Nella sua libreria ci sono (quasi) tutte le opere di Dostoevskij, D.F. Wallace e Pontiggia.
[Illustrazione di Francesca Gori]