Lo smartphone vibra con due sequenze brevi e ravvicinate. È un messaggio. Allungo la mano sul comodino per prenderlo. Impiego qualche secondo per mettere a fuoco lo schermo.
È mio fratello. Dice di esser uscito presto questa mattina, si scusa per non avermi aspettato, ma aveva urgenti impegni di lavoro. Mi suggerisce di prendere la macchina di nostro padre per raggiungere la camera mortuaria: “è ferma da mesi, ma funziona”. Rispondo con un semplice “ok”, e quasi mi sento sollevato a non dover andare con lui.
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La camera mortuaria è una dépendance posta sul retro dell’ospedale. Si raggiunge attraversando un piazzale adibito a parcheggio.
Davanti all’ingresso staziona un capannello di gente. Saluto poche persone. Baci e piccoli abbracci. Condoglianze. Non so bene come comportarmi, perciò assecondo ogni gesto che ricevo e schivo gli sguardi di chi non riconosco.
L’edificio ha due ampi saloni, a cui si accede da un corridoio dove trovo mio fratello. Parla con una coppia, a cui mi presenta appena mi avvicino. Poi, con la scusa di una chiamata urgente, si allontana.
«È sempre così impegnato?» chiedo loro.
Si sforzano di sorridere, come se l’ironia li mettesse in imbarazzo.
«Abbastanza» mi dice lui, «ma ha sempre trovato il tempo di parlarci di te».
«Vi conoscete da tanto?» chiedo.
«Ormai da qualche anno» risponde lei, e mi racconta in breve la storia della loro amicizia. Sento che sta parlando di qualcosa a cui tiene molto, e che mi dovrebbe riguardare, ma mi è estranea quanto loro due, quanto molte delle persone qui presenti, o quanto il pensiero che mio fratello abbia parlato a qualcuno di me, visto che di me sa quanto io so di lui, cioè poco e niente.
Dal corridoio riesco a intravedere la bara di nostro padre, al centro del salone. Chiedo ai due se vogliono accompagnarmi dentro. Lui guarda l’orologio e mi dice che sono lì da tanto, devono andare via. Mi offro di accompagnarli all’uscita, «così approfitto per fumare una sigaretta».
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Fuori c’è sempre lo stesso capannello, gli stessi sguardi. Non ho la spontaneità e la sicurezza di mio fratello, preferisco evitarli e defilarmi poco più in là dell’ingresso.
«Ci fa piacere averti conosciuto» mi dicono i due prima di salutarmi. Li invito a stare ancora un po’, sembrano simpatici, ma il massimo che mi concedono è la compagnia di lei nell’attesa che lui vada a prendere l’auto.
«In un’altra occasione, saremmo rimasti volentieri» mi dice.
«Non preoccuparti» le rispondo, «è un’occasione come un’altra, solo un po’ più triste».
Sorride, come se fuori da quelle mura si sentisse libera di farlo.
«Ognuno affronta questi momenti a modo suo» mi dice, «tuo fratello in questi giorni non si è fermato un attimo: l’ospedale, il funerale, il rinfresco. Sembra una trottola. Vorrei stargli vicino, ma non mi dà la possibilità».
«Non darti pensiero, lui sa sempre cosa fare e come fare».
«Tu credi?».
«Così sembra. Ma forse lo conoscete più voi di me. Se mai ci sarà bisogno, verrò a chiedervi aiuto».
«Spero di essere pronta quel giorno».
«Tranquilla, dicevo per dire, non prenderla male».
«Scusami, è che non amo particolarmente questi momenti».
«Nessuno li ama. Forse un impresario di pompe funebri, ma se lo terrebbe per sé».
«Vero. Ma non trovi sarebbe bello se… se non ci si dovesse preoccupare di tutto questo? Se non ci si dovesse preoccupare di… morire?».
Articola quella parola in maniera goffa, come se le fosse scivolata di bocca un attimo prima di pronunciarla.
«Non saprei» rispondo, «in effetti non me ne preoccupo».
«Sarai anche tu un mortariano allora».
Non rispondo. Lì per lì penso sia un insulto, tipo: “sarai anche tu un necrofilo”.
«Un mortariano» ripete, intuendo il mio spaesamento, «una persona che accetta l’idea della mortalità».
In un certo senso, dato che non ci troviamo su Proxima Centauri e lei non è un essere divino, è come se mi avesse detto: “anche tu sei un essere umano che accetta di esserlo?”. Lo trovo pleonastico. «Scusami, non credo di seguirti».
La sua mano mi prende l’avambraccio. Non stringe, ma sembra volersi assicurare che le stia vicino e l’accompagni in una camminata che, con una leggera pressione, mi invita a fare con lei.
«Vedi» mi dice, mentre costeggiamo la parete dell’edificio, «la durata della vita, se paragonata al tempo dell’universo, è infinitesimale. Tutto ciò che c’è stato prima e tutto ciò che ci sarà dopo non dovrebbe riguardarci, eppure ci affligge».
«Basterebbe non pensarci».
«E come fai? È la fragilità del corpo umano, la sofferenza che porta con sé, a ricordartelo tutti i giorni. Spero che la tecnologia ci liberi da questo fardello e ci permetta un giorno di vivere per sempre, perché solo allora, liberati dalla caducità della materia, potremo goderci la vita».
«Sei per caso una transumanista?».
«Se mi vuoi definire così…».
«Non volevo offenderti».
«Non mi sento offesa, tranquillo».
«In ogni caso, io non ho interesse a vivere per sempre».
«E perché? Non ti sentiresti sollevato dal dolore e dalle responsabilità di una giornata come questa?».
«Sì, può darsi, ma solo perché questa giornata non ci sarebbe».
«Ti sembra poco?»
Mi fermo. Anche lei si ferma. Ora siamo uno di fronte all’altra. Le metto una mano sulla spalla: «la verità» le dico, come volessi confessarle qualcosa, «è che io non ho interesse a vivere per sempre, perché sono un veemente».
Si scosta, e mi osserva col piglio di chi si aspetta una spiegazione perché si sente presa in giro. Ma sono serio. Anzi, serissimo.
«Conosci il Vehement?» le chiedo, «si scrive V-H-E-M-T. È il movimento per l’Estinzione Umana Volontaria. Io ne sono un sostenitore, cioè, ne appoggio la filosofia».
Non mi sembra convinta. Vorrei spiegarle di più, ma sento in tasca due vibrazioni brevi e ravvicinate, che mi avvisano di un messaggio. È mio fratello, mi chiede dove sono. Lo raggiungo all’ingresso.
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Mi avvicino e gli porgo una sigaretta: «ho smesso» dice.
«Non sapevo nemmeno che avessi iniziato».
«Allora perché me l’hai offerta?».
Non rispondo. Sfrego la scarpa sul marciapiede e calcio via dei sassolini.
«Finisci tu qui?» mi chiede, «ho delle cose di lavoro da sbrigare. Ci vediamo direttamente in chiesa nel pomeriggio».
«Non aspetti che chiudano la bara?»
«No, non aspetto».
«Non puoi rimandare il lavoro almeno per oggi?»
Si volta: «non ti arrabbiare», mi dice, dandomi le spalle, «l’ho già salutato».
Lo guardo allontanarsi.
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Nel salone della camera mortuaria non c’è più nessuno. Potrei piangere ora, o forse vorrei, ma non riesco. Sto lì, sento un groppo formarsi all’altezza del petto. Un pantano viscoso che dal fegato risale ai polmoni e si lega, quasi mi soffoca, e mi impedisce di far qualcosa, qualsiasi cosa, pur di sentirmi a posto con me stesso e chi ho davanti.
Ma cosa dovrei fare? Ha già fatto tutto mio fratello, ha pensato a tutto lui. Non ho nulla di cui preoccuparmi, se non fare ciò che ci si aspetta faccia un figlio in questi momenti.
Tocco il bordo della bara.
Forse aveva ragione lei. Se ci liberassimo di questi momenti, noi fragili mortariani, avremo il tempo di dedicarci ad altro, e saremo finalmente felici. Felici per cosa poi, non lo so.
Sento bussare alla porta della stanza, anche se è aperta.
Due ragazzi con l’attrezzatura per sigillare la bara mi chiedono se ho bisogno di altri dieci minuti, o se voglio aspettare mio fratello per assistere alla chiusura.
«No» dico, «non è necessario».
In realtà, se ci liberassimo di questi momenti, l’eternità che ci aspetterebbe non riuscirebbe a spiegare nulla più di quanto già non si possa scoprire davanti alla morte. Perché rifiutarla?
Mi chino verso il corpo: «questo è anche da parte sua, perdonalo» sussurro. Lo bacio.
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[Illustrazione di copertina a cura di Salvatore Giovanni Scognamiglio, in arte XGC]