di Stefano Serri
Dopo pranzo soprattutto: forse la digestione, con la glicemia che si alza; forse un bicchiere in più di vino a tavola o una pastiglia presa tardi; forse il caffè o, forse, solamente l’ora, che sembra quella giusta. Dopo pranzo soprattutto: la sentivo perfettamente, anche con tre file di case, il traffico e il chiasso del bar a separarci; la sentivo dal mio letto, dopo pranzo, in estate e in primavera soprattutto, a finestre spalancate. Era là che a squarciagola liberava i suoi stornelli straripanti che storpiati trasformava in strazi acuti, spingendo anche i passanti più tranquilli a dire basta: figurarsi poi i vicini o quei clienti sempre fissi al bar di fronte. Altalena di risate e di bestemmie, malediceva tutti quanti con le braccia alla ringhiera del balcone: imperterrita emetteva a suo piacere ancora tre, quattro canzoni, poi rientrava.
Quel concerto stabiliva l’inquietudine dell’ora meridiana, quando il panico si avverte come un’aria che si asciuga solamente verso sera. Lei svettava, oltre l’afa e oltre il sudore: la sua voce-labirinto, tra le strade già assopite, storpiava spazio e tempo con una geometria alterata. Dava voce all’ansia estiva, l’ansia bella e densa che ti si appiccica dentro: non appena la sentivi, spariva.
A volte usciva. Passo tacco, passo tacco, la Teresa procedeva come ferma nella strada: si spostava a scatti lenti e impiccioliva o s’ingrandiva poco a poco, dal supermercato a casa e viceversa. Avvolta nei vestiti senza pieghe, in quei kimono larghi e chiari, velluto o raso in base alla stagione, bianchissimo il cotone a fiori grandi. E poi le zeppe-trampolini sopra i quali manteneva senza sforzo lungo gli anni un equilibrio inalterato. Dignitosa e mai esibita procedeva certa e calma nel tragitto equilibristico su un filo ben nascosto: a lei chiaro, per noi solo la matta, la più matta del paese, sprofondata nel suo buio senza psiche.
Sulla faccia occhiaie eccentriche e bistrate, oltrepassavano parecchio i sopraccigli, in una maschera dove mascara e rimmel s’indistinguono in un nero che le arriva quasi al cranio. Uno schermo di trucco serrava il rigore caotico dei suoi pensieri astenici; niente, su quella faccia esotica, si opponeva al crollo di una creatura che si decerebra. E in cima, sulla calotta cranica, come una stella cometa conica, la chioma dolomitica le incombe nera e lucida sopra la faccia malinconica.
Il bianco e il nero, estremi, combattevano in quel volto, nessuno mai vinceva: Teresa, come un tao, rotolava a bordo viale, barcollava solo un attimo e poi giù per la sua via, con andatura agonica e testarda. Quindi, svoltava e saliva in camera.
Nell’armadio, sui tre ripiani, tutto in ordine. Sotto, i libri, pochi e spessi, lì da anni: il vocabolario, l’Atlante Zanichelli, l’elenco telefonico, un tomo ponderoso di ricette di cucina. Poi, dopo un gomitolo di lana, I promessi sposi e Favole al telefono, nient’altro.
Sopra, le foto: matrimonio, salotto, scuola, neonato, vacanze, funerali.
Infine, nell’ultimo ripiano, un carnevale di pupazzi e animali, accatastati in modo da mostrare ognuno il viso o il muso senza oscurare quello del vicino, come posassero ininterrottamente per una foto di gruppo. Il criceto obeso, il nano di coccio, il gufo, il coniglio, la bionda, una stella, l’angelo fatto a uncinetto, la pecora dentro il presepio di legno.
Solo una foto in mezzo a questa babele variopinta: la foto di Teresa davanti a un tirassegno e ai suoi premi, nel luna park che per anni aveva allestito nella piazza del mercato. Una volta, lì, c’era una balera.
La foto era vecchia, perché lei era ancora giovane, in quel rettangolo sfocato. “Si vince sempre”, la scritta in rosso alla base del bancone non era sbiadita. Ogni volta che con lo sguardo incrociava quella frase, Teresa di colpo si fermava, interrompeva quello che stava facendo o pensando e iniziava la sua distribuzione quotidiana.
Dava i premi, come allora, a tutti; la mano seguiva il pensiero, sceglieva i pupazzi dall’armadio o dalla foto: si confondevano tra loro, le creature reali e quelle di carta. Alcune coincidevano davvero. Ne prendeva uno, ne ricordava il nome, l’origine, i difetti accumulati lungo i giorni (ha perso un pezzo, com’è ingrigito, si è fatto serio) e dava il trofeo prescelto a una persona, una a caso. Anche i destinatari dei suoi doni, anche quelli li confondeva, conoscenti reali o passanti di una fantasia. La sirena, la madre, il lattaio, la donna dipinta sul sacco del pane: clienti affollati davanti al tirassegno del suo cervello. A una cugina che non vedeva da molto tempo (le veniva incontro ancora quindicenne nel ricordo) dava la spilla verde a forma di serpente; alla presentatrice del telegiornale regalava una coccinella enorme; al dottore che la curava, un gufo di metallo. Lui, il dottore, era l’unico che non voleva mai nulla: anche se vinceva, lasciava sempre lì il suo premio. A lui aveva parlato della foto, ma il dottore aveva detto cose strane, che non doveva guardarla troppo, quella foto, e Teresa aveva promesso di sì; ma per lei era l’unico paese che le restava, quell’autoritratto con il suo popolo.
Una volta si era sporta dal balcone gettando i suoi pupazzi, urlando a immaginari vincitori laggiù in strada, oppure mostrandosi delusa ed esclamando – peccato, ma ecco un premio lo stesso, come consolazione –. Poi era arrivato il dottore.
Una mattina Teresa si alzò dal letto con grande fatica. Ci mise un’ora intera per lavarsi. Le cose bianche diventavano scure e tutti i colori perdevano peso. Appena riuscì a sedersi sul tavolo, prese un foglio e, mentre ascoltava alla televisione alcune canzonette, guardando i suoi pupazzi uno a uno, pensò al suo testamento:
Testamento di Teresa.
I vestiti, la matita nera, le canzoni: è proprio un peccato dover lasciare queste cose.
I capelli, la massa scura di capelli annodata sulla testa: ora li ho sciolti.
I pomeriggi, a volte fino a sera, sul balcone: quanto ho cantato, sempre gratis.
In estate e in primavera che confusione, poi c’era l’inverno e stavo sempre in casa.
I ricordi della vita, le ore e le emozioni: sono finiti, stanze chiuse.
E voi, amici del tirassegno, a chi vi posso lasciare?
Non posso darvi tutti a un’unica persona, anche se farei prima, in questo modo, e avrei più tempo per me, invece di continuare a lavorare e dare premi come ho fatto ogni giorno della mia vita.
Ma se lasciassi tutto a uno solo, costringerei questo fortunato a passare tutta la vita come ho fatto io, relegato in una camera, relegato a regalare (mi piace quando le parole si assomigliano). Qualcuno perderebbe la propria vita perché gli altri vincano sempre qualcosa.
No, darò un solo premio a ciascuno, così sarete in tanti a ricordarmi: potrò dire, almeno una volta, di avere vinto io, di avere vinto ognuno di voi.
E poi potrò riposarmi, anche se mi dispiacerà chiudere il balcone e non vedere più le altre finestre, i negozi, l’erba nei cortili.
Pulire quella stanza dopo la sua morte non fu operazione lunga né complessa: stava tutta in due sacchi la paccottiglia del salotto che nessun parente venne a reclamare. I vestiti erano stati destinati a un centro di pubblica assistenza: tre armadi pieni di stoffe preziose e dalle fogge più che vistose, folgoranti.
Chissà quanto tempo e denaro aveva perso per accumularli, conservandoli con cura nella loro carta velina: indossandoli uno dopo l’altro, nel delirio di essere ancora la ragazza bella e sorridente che aveva conquistato i cuori di molti uomini nel luna park dove lavorava, prima di scappare a Bologna quella notte: era bastata quella fuga di una notte per trovarsi incapace di dire no alle idee fuori di lei.
Pensava questo, l’assistente sociale di Ronfaio, mentre toccava il raso, la biancheria sottile, i bordi di pelliccia. La storia di Teresa la conosceva bene, come tutti. Era più nota lei dei quattro partigiani uccisi nel Quarantaquattro che avevano quel monumento in piazza, che la gente ormai ignorava. Chissà in quale prigione solitaria, senza sbocchi, solo sbarre, era trascorsa la vita di Teresa, senza rapporto con qualcuno al di fuori di se stessa.
Al funerale però erano in molti; due mesi dopo, sul giornalino del comune era comparso un trafiletto di commiato con la foto. Ma nessuno era mai andato a casa sua, in quegli appartamenti popolari all’angolo tra le due vie più malfamate del quartiere.
Con un misto di affetto e derisione, qualcuno aveva scritto sopra il muro lì di fronte: Teresa canta che ti passa. Il giorno dopo il funerale, la scritta era stata cancellata; un ragazzo, sopra quelle pennellate, aveva fatto un ritratto della donna: una maschera bianca e nera, come la ricordavano tutti.
Avevano pubblicato quel disegno, sul giornalino del comune. Per i ricordini del funerale, invece, avevano usato l’unica fotografia trovata in casa, con lei ragazza al tirassegno. Per renderla visibile avevano allargato l’immagine, isolando il suo viso e circondandolo con uno sfondo neutro, giallastro, per coprire tutti gli oggetti del riquadro: il più difficile da eliminare, tanto le stava addosso, era stato il muso peloso e arrotondato di una grande scimmia rosa, che si ostinava, dispettosa, a rimanere appiccicata alla sua guancia.
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Stefano Serri (1980) infermiere, laureato in Discipline teatrali, ha curato e tradotto dal francese testi di Ernest Pépin, Jean- Baptiste Para, William Cliff, Han Ryner e altri. Tra i suoi ultimi libri pubblicati, il romanzo-saggio Idropatici. Storie di poeti e di liquore (Robin, 2020) e le poesie di Cerco casa (Kolibris, 2020).
[Immagine di copertina di Alessandro Bonvini]