Carnival love, Katherine Dunn, Elliot, 2007
di Silvia Fornaroli
«Talvolta scorgo gli orrori della normalità. Ciascuno di questi innocenti che passano per strada sta annegando nel terrore della propria ordinarietà. Tutti loro sarebbero disposti a fare qualsiasi cosa pur di essere unici. […] E poi ci sono quelli che percepiscono la loro stranezza e ne sono terrorizzati. Lottano con tutte le proprie forze per avvicinarsi alla normalità, e soffrono nell’esatta misura in cui sono incapaci di apparire ordinari agli occhi degli altri o di convincersi che la loro aberrazione non esiste. Questi sono veri freak che sembrano, quasi sempre, convenzionali e poco interessanti».
Che Portland abbia aggregato autori avvezzi a passare i limiti – dal Palahniuk di Invisible Monsters, a Tom Spanbauer con il suo workshop Dangerous Writing, passando per i racconti di Amy Hempel – è fatto assodato, ma secondo Katherine Dunn, che nella città dell’Oregon si è trasferita negli anni Settanta prima di morirci nel 2016, è un posto dove «chiunque vive come minimo tre vite».
Carnival love è la sua ultima opera conclusa, concepita nel corso di una decade prima di arrivare alla pubblicazione nel 1989.
Olympia Binewski, nana albina dotata di gobba, ci prende per mano e ci conduce nei meandri di un’esperienza lisergica, tra i ricordi del circo itinerante di famiglia e dei suoi spettacoli estremi. I genitori di Oly, infatti, preoccupati dal calo degli ingressi e ossessionati dalla ricerca di unicità, finiscono per spingersi oltre qualsiasi limite, arrivando a generare – letteralmente – il loro freak show domestico. Tramite l’assunzione di droghe pesanti, alcol e materiali radioattivi, i coniugi Binewski daranno vita a vere e proprie opere d’arte genetica, figli altamente selezionati per le loro apparenti deformità.
In un’alternanza tra passato e presente, gli episodi grotteschi si susseguono e precipitano in una spirale sempre più disturbante. La protagonista ricostruisce un mondo in cui è l’aberrazione a costiture la normalità, il “fenomeno da baraccone” a essere attraente, e l’ostentazione di queste caratteristiche l’unico modus vivendi.
Carnival Love compie 32 anni, ma i nuclei della sua narrazione sono oggi forse più vivi che alla fine degli anni Ottanta. La lotta alla conformità, percepita come minaccia da cui tenersi alla larga, l’esposizione urlata di parti di sé che distrae e cela quello che è troppo fragile e complesso per essere compreso. La gobba di Oly diventa così un vanto da esibire, le “pinne” del fratello Arty un baluardo contro la convenzione che si può solo invidiare.
In questo romanzo è tutto ribaltato, ci si chiede spesso chi siano i veri “mostri”, e perfino l’amore – folle e tragico, l’unico possibile – sembra confondibile, a tratti, con l’odio.
Stiamo parlando di un romanzo inquietante, nel senso più preciso del termine, in cui la dolcezza della narrazione è talmente prepotente da risultare violenta; e di violenza, la Dunn se ne intendeva. Finita per una serie di coincidenze a scrivere di boxe, abituata a frugare nella natura più sincera di uno sport “sporco” e spesso duramente criticato – fu per anni, infatti, l’unica corrispondente donna da Portland –, ne aveva esplorato gli ambienti più improbabili.
Di certo partita con altre premesse, aveva scoperto, e poi insegnato, che anche dietro a una fasciatura – quella che evita che le nocche del pugile si spacchino subito contro la faccia dell’avversario –, un osservatore curioso può scorgere la tenerezza di un atto d’amore. Del resto è la stessa Dunn, nei suoi dispacci, a dirci che i ragazzi approdano a questo sport «per diventare forti e sapersi difendere dal resto del mondo esterno, ma rimangono per la segreta dolcezza che si cela nel cuore di ogni palestra di boxe».
E Carnival Love non è altro che questo, in fondo: una violenta, aggressiva, micidiale e segreta storia d’amore. Pazienza se dalla lettura, come da un incontro, si esce un po’ ammaccati o con le ossa rotte del tutto. Il richiamo a rientrare nel tendone del circo – o a tornare ad amare – è talmente forte da far ricucire in fretta le ferite, per trovarsi di nuovo sul ring.
[Immagine di copertina: The Living Skeleton” e The Fatman, George Moore]