di Lorena Levan
Un altro giovedì era passato. Anche stavolta Stefano si era portato a casa del sushi da asporto, la solita decina di nigiri presa al ristorante giapponese gestito da cinesi che stava a dieci minuti da casa sua. Aveva aperto sì e no quattro anni fa, in punta di piedi, e piano piano era diventato tappa fissa di molti, Stefano compreso. La qualità non era un granché, ma il prezzo e la comodità si facevano sempre troppo allettanti la sera, di ritorno da una lunga giornata in ufficio.
Stefano aveva consumato la sua cena davanti alla televisione, guardando distrattamente una serie TV americana. Finita la consueta tazza di decaffeinato caldo, si era lasciato coccolare dal divano e aveva aperto Facebook. Aveva dato un’occhiata rapida ai post condivisi dagli amici: polemiche sterili e video in cui un tizio costruiva castelli incredibili con la sabbia colorata. Poi aveva aperto WhatsApp e aveva passato in rassegna la lista dei contatti, fino a trovare il nome di Elisa Pellegrini. Lei non aveva visualizzato i suoi ultimi messaggi ma Stefano non se n’era curato troppo e aveva iniziato a scriverle.
Stefano le aveva chiesto come stava. Le aveva raccontato che un suo collega stronzo continuava a lasciargli i lavori più noiosi. Era quello smilzo che vestiva sempre polo a righe, Elisa l’aveva conosciuto quando aveva accompagnato Stefano ad una cena aziendale.
Le aveva poi raccontato di come l’avesse pensata oggi, mentre la sua collega Roberta parlava del suo viaggio a Firenze. Anche loro ci erano stati insieme: Elisa aveva programmato l’itinerario fin nei minimi dettagli ma il brutto tempo aveva guastato i piani. Lei però non aveva voluto sentir ragioni e aveva trascinato Stefano sotto il diluvio universale. Erano saliti in cima al campanile di Giotto, nonostante il freddo, e Stefano l’aveva abbracciata da dietro, coprendola con il suo piumino, per scaldarla un po’. Elisa aveva notato i tetti bagnati dalla pioggia e aveva detto che secondo lei erano molto più belli di quelli asciutti perché erano più accesi, più brillanti. “La foto con il sole ce l’hanno tutti” aveva dichiarato, facendo spallucce. Stefano aveva annuito senza entusiasmo, la vista e i tetti lucidi lo lasciavano indifferente e non vedeva l’ora di rintanarsi al calduccio di una qualche trattoria. Ripensandoci, era stato davvero uno stupido senza poesia.
Come il giorno prima del loro viaggio a Firenze, anche le previsioni dell’indomani davano pioggia: per rifarsi, Stefano aveva promesso ad Elisa che avrebbe trovato qualche tetto degno di nota e le avrebbe mandato una foto. Non era sicuro che ci fossero tetti con le tegole in mattone a Milano, non ci aveva mai fatto davvero caso, ma ci avrebbe provato.
Stefano si era congedato, augurandole la buonanotte. Dopo aver messo un paio di like alle foto di amici, era rotolato giù dal divano; sonnacchioso si era lavato i denti e si era messo il pigiama prima di infilarsi lentamente sotto le coperte. Il freddo dell’autunno stava iniziando a farsi sentire e il letto ci metteva già un paio di minuti a raggiungere una temperatura accettabile.
Quella sera Stefano era caduto abbastanza velocemente in un sonno profondo ma agitato e si era poi risvegliato al mattino sudaticcio e infagottato nelle coperte. Come ogni mattina si era fatto la doccia, aveva bevuto una tazza di caffellatte con qualche biscotto ed era uscito a prendere il tram per andare in ufficio. Le previsioni ci avevano azzeccato: una pioggia debole ma costante stava bagnando le strade e il cielo era completamente ricoperto da nuvole grigie, colore tipico degli autunni di Milano.
La giornata in ufficio era passata senza grossi intoppi: il progetto a cui stava lavorando procedeva ad un ritmo decente e nessuno dei colleghi sembrava particolarmente stressato. Durante la pausa caffè era salito al quinto piano e aveva fotografato la vista dai finestroni dell’area relax. Aveva riguardato le foto per qualche secondo sullo schermo del suo cellulare: soddisfatto dai tetti lucidi rosso intenso che aveva catturato, li aveva inviati ad Elisa, come promesso.
A pranzo aveva mangiato fritto di calamari con altri quattro colleghi. A tavola avevano discusso di macchine: Andrea voleva comprarne una nuova, ma era indeciso se continuare con le tedesche oppure optare per una giapponese. Incalzato da Lorenzo, acceso sostenitore della qualità nipponica, si era messo a gesticolare energicamente, mettendo in bella vista il sudore che macchiava la sua camicia. Stefano, invece, non aveva un’opinione a riguardo e se ne stava in disparte: da quando si era spostato a Milano aveva fatto a meno dell’auto. Ogni tanto ne aveva sentito la mancanza, soprattutto quando si trattava di portare a casa la spesa o di fare gite fuori porta, ma tutto sommato gli andava bene così.
Il pomeriggio, di ritorno in ufficio, aveva combattuto contro qualche sbadiglio e, a fine giornata, era saltato sul tram delle 18:36, in ritardo di soli quattro minuti. Sulla strada di ritorno aveva notato che al cinema davano il sequel di “Trainspotting”. Gli era scappato un sorriso: doveva dirlo a Elisa!
Le aveva scritto, chiedendole anche se si ricordasse la sera in cui si erano conosciuti: Francesco aveva chiamato Stefano per andare a vedere “Trainspotting”, il primo, e lui aveva quasi detto di no: era già in pigiama e poi cosa gliene fregava di un film sui drogati. Era stata Elisa, anni dopo, ad indottrinarlo e a convincerlo a leggere i libri di Irvine Welsh. Per un po’ Stefano aveva fatto finta che non gli piacessero, solo per non dargliela vinta, ma alla fine si era appassionato anche lui.
Di fronte all’insistenza dell’amico Stefano si era lasciato convincere: lui e Francesco erano arrivati per primi al cinema; Elisa li aveva raggiunti una decina di minuti più tardi, con un’amica. Si ricordava ancora di come fosse andato silenziosamente in panico alla vista dei suoi capelli neri mossi e delle sue labbra rosso fuoco. Per quasi tutta la sera non era riuscito a rivolgerle la parola: quando cercava di parlarle dandosi un tono, gli tremavano le gambe. Nonostante tutto però, era stata Elisa a chiedere il numero di Stefano a Francesco e a contattarlo. Da lì avevano iniziato a frequentarsi e, dopo qualche anno, erano finiti a vivere insieme.
Una volta arrivato a casa Stefano si era cucinato un semplice piatto di ravioli in bianco. Per tutto il tempo non era riuscito a togliersi dalla testa l’immagine di Elisa con il suo vestito nero, del modo in cui le schiacciava i seni, delle sue labbra rosse e carnose, dei suoi capelli e di come le scendevano lunghi sulla schiena scoperta. Subito dopo aver finito la cena era corso in bagno a masturbarsi, con foga. Appena finito, l’aveva colto un violento senso di colpa.
Aveva lavato i piatti lentamente, fissando il vuoto, e si era poi messo direttamente a letto, dove si era rigirato per almeno un’ora prima di prendere sonno. Il freddo dell’autunno sembrava sparito quella sera, al suo posto solo lenzuola calde, roventi.
La mattina successiva Stefano si era svegliato in un bagno di sudore, claustrofobico. Aveva bisogno di una boccata d’aria: si era cacciato addosso qualche vestito giusto per apparire accettabile ed era sceso a fare colazione al bar sotto casa. Aveva ordinato cappuccio e cornetto alla marmellata e si era seduto ad uno dei tavolini in alluminio. L’unico altro avventore era un uomo sulla tarda cinquantina, egiziano, che sorseggiava qualcosa che sembrava whiskey, o forse grappa, e fumava, incurante del divieto.
Stefano aveva consumato la sua colazione in silenzio, aveva pagato il conto al ragazzo dietro la cassa ed era uscito. Non aveva organizzato nulla per il fine settimana, nessuna uscita con gli amici, nessuna faccenda da sbrigare. Per un attimo aveva accarezzato l’idea di andare a fare due passi in centro, magari sarebbe riuscito anche a trovare un rimpiazzo per il suo cappotto sgualcito, poi, però, l’apatia aveva preso il sopravvento. Ripercorrere mentalmente il tragitto era bastato a scoraggiarlo. Senza troppo entusiasmo era tornato su, in casa e si era sdraiato sul divano con il portatile appoggiato sullo stomaco a guardare un’altra serie TV su Netflix. Finita la puntata aveva sentito un senso generale di fastidio, per trovare un po’ di sollievo si era messo a sedere e aveva riposto il Mac sul tavolino di fronte. Sperando di sfogare il suo malessere aveva deciso di scrivere ad Elisa.
Le aveva scritto che non si sentiva molto bene, che nemmeno l’episodio di Arrested Development era riuscito a tirargli su il morale. Le aveva detto che la sera prima aveva ripensato a quella volta che stavano fuori con i colleghi di Elisa a fare l’aperitivo: c’era anche quella coppia gay che lo faceva scompisciare dal ridere. Lei gli aveva detto altre volte di smetterla di pensare a questa storia ma lui non ci riusciva, la scacciava per un po’ ma poi tornava, più forte di prima.
Si ricordava tutti i dettagli: lui aveva appena ordinato un Negroni sbagliato e lei il suo solito vino bianco. Poi ad Elisa era suonato il telefono ed era sparita. Lui non ci aveva fatto troppo caso, era intento a sghignazzare con i due tizi simpatici: non erano tanto le storie in sé a farlo ridere, quanto più i paragoni che andavano a pescare, come quando avevano rispolverato Mirko dei Beehive per descrivere il nuovo taglio della loro capa.
Poi Elisa era tornata. Lì per lì Stefano non aveva capito cosa fosse successo. Lei era rimasta tutta la sera in silenzio con lo sguardo assente, perso nel vuoto. Lui aveva provato a chiederle cosa fosse successo, ma lei aveva abbozzato un sorriso e aveva risposto di star tranquillo, che non era niente.
Stefano ancora si chiedeva come avesse fatto a non capire subito: che stronzo che era stato.
Mentre scriveva ad Elisa, il telefono aveva iniziato a vibrare: era Marika, sua sorella.
“Pronto?”
“Ciao zio!”
“Ciao Serena! Come stai?”
Sua sorella Marika era più grande di lui di cinque anni. Aveva sposato questo tizio di nome Angelo, un banchiere silenzioso, sembrava un tipo a posto. Un paio di volte erano andati a Monza a vedere le corse insieme, cose che a Stefano importavano poco, ma voleva mostrarsi accogliente. Sua sorella e Angelo avevano una figlia, Serena, di sei anni. Era una bimba bellissima dai capelli biondi e gli occhi verdi, proprio come la madre di Stefano.
“Ti passo la mamma che vuole parlare con te.”
“Va bene! Ciao, un bacione.”
“Ciao Ste.”
“Ciao sorella, come stai?”
“Bene dai. Oggi Serena è tranquilla, a parte che ha deciso di usare i muri come quaderni da disegno.”
A Stefano era scappata una risata.
“Eh, ridi ridi! Tu come stai invece?”
“Bene dai, niente di particolare, stavo guardando BoJack.”
Erano seguiti un paio di secondi di silenzio, era la terza volta che riguardava la serie da capo.
“Senti, pensavo: ti va di cenare da noi stasera? Ho preparato uno spezzatino che così non l’hai mai provato!”
Stefano ci aveva pensato su un attimo. Non aveva nient’altro da fare ma l’idea di doversi rendere socialmente accettabile non gli andava particolarmente a genio.
“Dai che Serena vuole vederti!”
Marika sapeva sempre quali tasti spingere con suo fratello.
“E va bene dai, per che ora?”
“Fai per le otto.”
“Ok, perfetto. Prepari qualcosa anche per Elisa? Ricordati che è vegetariana.”
Era seguito un altro, lungo silenzio.
“Ste…”
“Cosa?”
“Elisa…”
“Lo so, scusami. È l’abitudine.”
“Figurati, capisco. Ci vediamo alle 8 allora?”
“Certo, alle 8.”
Stefano aveva riagganciato ed era tornato a scrivere il messaggio.
“Mi manchi.” aveva detto ad Elisa “Da solo non ce la faccio più.”
Poi aveva pianto. Un pianto secco e strozzato in gola. L’immagine di Elisa sdraiata su quel letto d’ospedale, giallastra, scheletrica e senza più voce gli provocava un dolore acuto appena sotto lo sterno.
“Perché mi hai lasciato solo?” le aveva scritto. La risposta non era mai arrivata.