“Seduti su una panchina di un locale in un parco vicini allo stadio con un cestino di plastica avvolto in carta da forno e ripieno di fritto misto, indifferenti al film di Hitchcock che viene proiettato ad una quindicina di metri di distanza e osservato da un pubblico sonnacchioso, Lo Bue sta raccontando che:”
#fioriblu
-
-
di Deborah Foss
“Attaccare una corda al lampadario e impiccarsi. Non sono riuscito a portarli tutti qui, i miei libri. Molti sono rimasti a casa di mio padre, ma li so quasi a memoria. Quando cito qualche passo tutti mi guardano e strizzano gli occhi. Non colgono, non ricordano. Ignoranti. (…) Aprire l’armadietto dei medicinali e ingoiarli tutti”. -
Arianna voleva solo vedere cosa ci fosse dietro quella porta. Ma non ci riuscì, né all’ospedale né alla sala parrocchiale. Però sua mamma da quel giorno non la vide più, né quando rientrava a casa, né davanti ai film in bianco e nero del lunedì sera.
-
Da bambina, parlavo una lingua tutta mia, e le cose, quando le chiamavo, prendevano vita e parlavano solo a me: solo io potevo capirle. Poi ho visto tanti dottori, ho fatto tanti esercizi e, pian piano, le parole degli altri sono diventate se non facili, possibili. Ancora oggi, spesso, non parlo bene. (…) Per questo, adesso, David è il mio taríto, non “marito”. Lui mi corregge, quando dico taríto, ma non capisce: taríto, nella mia lingua, vuol dire molto di più.
-
Il nonno diceva sempre che per quanto un uomo ritenga d’aver condotto un’esistenza felice, questa non sarà altro, in fondo, che una mera collezione di miserie. Persona saggia, il nonno. Diabete. Crohn. Giallognolo. E poi cenere. Per lui avevo preso una febbre da 42 gradi. Visioni. Avrebbe voluto avere una vigna, sempre. Non ha fatto in tempo a vederla. Nemmeno in foto. Fortunatamente.
-
Per lavoro accoglievo persone non vedenti all’aeroporto Kennedy e le accompagnavo a un istituto caritatevole nei pressi di Troy, New York. Era una specie di scuola dove a ogni non vedente veniva affiancato un cane guida per imparare a lavorare insieme.
-
Passò le dita sul tessuto della bandiera a rombi e strisce che indossava come un saio, gustando il brivido libidinoso che gli percorreva la colonna vertebrale. Quella era la sua vera pelle. Puntò lo sguardo gelido sulla piazza straripante, dove alto e basso, liscio e ruvido, fulgore e ombra si mischiavano: «Atanor maledetto!», sibilò fra i denti, indignato dal bollire sottostante di una soluzione emulsionata di stature, manti e colori ab antiquo differenti, che differenti dovevano tornare.
-
Prima di tutto viene la paura. Ogni volta è come se qualcosa di inatteso esplodesse dentro di me, un tuono che fa vibrare tutto: l’aria, i vetri, il cuore. E io sono lì, completamente assorta nelle mie faccende: leggere, cucinare, pensare. In realtà, ormai, la maggior parte delle volte lo aspetto, perché arriva sempre più o meno alla stessa ora, più o meno. E mi spavento. È un rumore che mi terrorizza.