The Familiar 1, Mark Z. Danielewski, Pantheon, 2014
Mark Danielewski è divenuto celebre grazie al suo romanzo d’esordio House of Leaves (Casa di foglie) uscito nel 2000 negli Stati Uniti, pubblicato in formato monco da Mondadori poco dopo con uno scarso successo editoriale (probabilmente i tempi non erano maturi e Mondadori non lo aveva spiegato bene, inserendolo come un libro tra i tanti) e poi da 66thand2nd alla fine del 2019 in una bellissima edizione che ha trasformato questo romanzo complesso e strano in un cult anche qua in Italia.
La difficoltà di lettura di Casa di foglie è determinata da tanti aspetti, il primo dei quali è concettuale: ci troviamo di fronte a un libro ergodico, intendendo con questo termine un testo cartaceo caratterizzato da una marcata ipertestualità e dalla dissoluzione delle tradizionali forme di struttura narrativa. Cosa significa? Purtroppo bisogna chiamare in causa il vecchio, logoro post strutturalismo o, se vogliamo, decostruzionismo, andando a concepire una struttura narrativa ideata a partire da una vera e propria filosofia dell’immanenza. Le narrazioni generalmente sono concepite con un andamento caratterizzato da un’azione che cresce di intensità fino a raggiungere una scena che scioglie il conflitto soggiacente, a cui segue un’azione decrescente che ci conduce alla fine. I più bravi riescono a creare diversi momenti di apice della tensione, determinando narrazioni più complesse, ma la logica di base rimane la stessa, ovvero che ci sono scene che funzionano da catalizzatori e che quindi si pongono su un piano altro rispetto al resto del testo, un po’ come se tutto il resto della narrazione lavorasse in funzione di quel momento. Questo modo di costruire le narrazioni viene insegnato in qualsiasi scuola di scrittura ed è molto funzionale sia perché è una via sicura (il 99,99999999% della storia delle narrazioni è costruita sulle possibili variazioni di queste strutture e innumerevoli motivi precisi e più che giustificati ci sono del perché sia così), sia perché i lettori non vogliono faticare troppo, desiderano letture facili che non li facciano uscire dalla loro Comfort Zone mentale. Quindi nessuno avrà mai il coraggio di scrivere qualcosa di diverso perché saprà perfettamente che non sarà in grado di venderlo. Non esiste mercato che voglia prendersi il rischio di pubblicare qualcosa che probabilmente boh, non so cosa sia, come funzioni, a che serva e se riuscirò a tirarci fuori qualche soldo.
Danielewski è invece l’eccezione che conferma la regola. Bisogna subito dire che tra gli scrittori ergodici è l’unico a mio giudizio in grado di creare vera ergodicità, perché gioca con le strutture narrative ma navigando nell’immanenza (cosa che tutti gli altri ergodici non fanno, tipo Safran Foer, per citare uno tra i più famosi, che semplicemente scrive romanzi con strutture classiche inserendoci elementi ipertestuali con estrema raffinatezza).
Cosa voglio dire con “navigando nell’immanenza”? Di certo nei libri di Damielewski ci sono scene madri, eppure è l’attitudine generale nell’uso di immagini o di font o impaginazioni bizzarre che determina la differenza. Non si tratta semplicemente di giocare creando forme visive, grafiche che mimano la scena descritta (per esempio in The Familiar 1 (One Rainy Day in May) uno dei personaggi si domanda quante gocce cadano durante una giornata di pioggia (How many raindrops?) e Danielewski inizia a disegnare con le parole la pioggia, una pioggia che nelle oltre 800 pagine del romanzo (che dura appunto un solo giorno piovoso di maggio) cresce ininterrottamente diventando un quadro di parole di uno scroscio primaverile veramente violento (a tratti sanguinoso), allora in questo caso si potrebbe dire che Danielewski sta semplicemente mimando in modo visivo una scena del libro, ma in questo modo si mancherebbe il punto).
Il punto è che quelle pagine sono diegetiche. Non si tratta di inserti grafici che potrebbero anche non essere presenti nel romanzo (come in Safran Foer), bensì di veri e propri momenti narrativi che hanno la stessa importanza rispetto a passi raccontati nei consueti modi tradizionali. Sono quindi posti sullo stesso piano, sono dunque tutti immanenti l’uno all’altro in un modo tale che si va a creare una narrazione che distrugge, decostruisce il concetto di narrazione classico. Se in Casa di foglie questo tentativo artistico e sperimentale, senza dubbio avanguardistico, era realizzato solo con grafica editoriale (per così dire), in The Familiar (che è una saga che si prospetta come infinita e probabilmente caratterizzata da alcuni worm-hole strutturali che mi fanno sognare mentre rimango in attesa di leggere i successivi volumi (ho appena iniziato The Familiar 2 Into the Forest) si apre a qualsiasi altra forma di ipertestualità, tanto che la carta scelta dalla casa editrice è quella dei libri fotografici, aumentando notevolmente il costo e il peso specifico dei volumi. Siamo di fronte a un libro che mette sullo stesso piano narrazione romanzesca tradizionale, grafica editoriale, fumetto, social media, disegno, pittura, fotografia, elementi base di costruzione del movimento tramite immagine (leggasi cinema), e senza dubbio (questo forse il punto cruciale), intelletto, emotività e percezione, il tutto pensato per essere diegetico, tutto sullo stesso piano. Bisognerebbe quindi iniziare a concepire i libri di Danilewski come dei veri e propri punti di congiunzione tra romanzo e arte (intesa sia come discipline artistiche varie, sia come categoria estetica). Un libro che è arte.
Volete sapere di cosa parla il primo volume di questa saga, intendo il plot, la trama? Come dice il titolo in modo un po’ didascalico, racconta del senso di familiarità, di tutto quello che è comune, conosciuto, noto, ma che al contempo non lo è. Si tratta di un trattato sulla delicatezza, sul desiderio di difendere il debole, su quello che non guardiamo mai dentro di noi per non apparire semplici. Se vogliamo portarla alle estreme conseguenze, parla dell’ingenuità di una ragazzina che vorrebbe salvare il mondo.
Un lettore scettico potrebbe pensare che sia confusionaria una narrazione così catastroficamente immanente che racconta tramite mille diverse linee narrative il familiare (e bisogna riconoscere che la stragrande maggioranza dei libri esplicitamente ergodici lo è (confusionaria)), ma Danielewski ha questa capacità di rimanere presente a se stesso, di non perdere il timone nei momenti di tempesta, e quindi di scrivere questi romanzi destabilizzanti che può scrivere solo lui. A questo punto, secondo me, leggere Danielewski serve anche come esercizio per vedere quali sono i limiti possibili di una struttura narrativa, con l’unico inevitabile problema che la sua rivoluzione (il suo secondo romanzo si chiama Only Revolutions) sta già diventando uno stampino industriale. A suo modo questa recensione ne è una lampante dimostrazione.