Il buon soldato Sc’vèik, Jaroslav Hašek, Feltrinelli, 2013
Ieri mattina, poco dopo alzato, ho scritto a un caro amico: «Ma secondo te Sc’vèik potrebbe essere un Lebowski austroungarico?» riferendomi al personaggio del film dei Coen. La sua risposta è stata: «Ma tu pensi sempre a Sc’vèik?»
Sì, a Sc’vèik penso sempre, come si dovrebbe pensare sempre a un amico. E, come un amico, o come gli amori, Sc’vèik è finito nella mia immagine profilo di WhatsApp, in quella di copertina di Facebook, stampato su una maglietta e, se scorrete in fondo alla pagina, troverete il suo faccione bonario anche accanto al mio nome.
Come ho conosciuto Sc’vèik? Be’, l’ho trovato per caso in un b&b di Firenze e l’ho portato via. E anche se lo stesso Sc’vèik non avrebbe disapprovato il mio gesto (pure lui ruba: non per delinquere ma per aprirsi possibili lieti fine) i miei sensi di colpa non si sono fatti attendere. Sono tornato nel b&b e ho lasciato un altro libro che, a mio avviso, potesse far sentire meno sola un’altra persona. Perché Sc’vèik non è solo il personaggio di un libro: è un sorriso, una possibilità, una carezza al cuore, come solo un amico può essere.
Se in una piazza a Humannè, o nella piazza del mercato di Przemyśl o a Putim in Boemia del sud, o anche nell’insegna di un ristorante a Praga o in un vecchio francobollo dell’Unione Sovietica, è possibile incappare nella candida figura di Sc’vèik, il merito è solo della rocambolesca mente di chi ha creato le surreali avventure del buon soldato. Jaroslav Hašek (1883 – 1923), ceco, scrittore prolifico per gioco e burlone per professione, oltre ad aver dato vita a uno dei capolavori umoristici del Novecento, ha scritto più di 1500 racconti, ha collaborato con una rivista polemizzando con lo pseudonimo di sé stesso da una rivista di opposta ideologia, ha fondato il “Partito del progresso moderato nei limiti della legge”, partito dadaista politico basato su un assoluto lealismo, è stato arrestato per vilipendio alla bandiera, è stato lasciato dalla moglie dopo aver simulato la propria morte, è stato chiamato alle armi dall’esercito durante la prima guerra mondiale, è finito prigioniero dei russi e, dopo la guerra, è tornato a Praga per finire il suo romanzo, senza riuscirci.
Il buon soldato Sc’vèik (1923) fa parte dei grandi romanzi incompiuti, perché l’unica colpa di Hašek è stata quella di morire prima di aver iniziato pagina 847, almeno nella mia edizione (Feltrinelli, 1979), destinando Sc’vèik, dopo più di ottocento pagine di umorismo, sarcasmo, satira, tirate d’orecchio a ogni tipo di istituzione sociale, a non arrivare mai al fronte. Forse per il candido personaggio è una fortuna, anche se sicuramente il buon Sc’vèik, in una maniera o nell’altra, se la sarebbe cavata, ma altrettanto sicuramente, per il lettore, è una punizione dantesca quella di voler girare una pagina che non esiste.
Diviso inizialmente in quattro parti (Nelle retrovie, Al fronte, Botte da Orbi, Ancora botte da orbi) riunite di recente in un unico volume edito da Feltrinelli, Il buon soldato Sc’vèik, vero e proprio manifesto antimilitarista, non risparmia, con la sua feroce ironia, neanche il clero, la monarchia, la burocrazia, ed è impreziosito ancora di più dalle illustrazioni di Josef Lada, amico e coinquilino di Hašek, che con tratti semplici, bonari, al limite del volgare, proprio come la scrittura dell’autore, riesce a narrare anche i puntini sulle i di un pensiero felice del buon Sc’vèik.
Senza Sc’vèik non esisterebbe Comma 22 di Joseph Heller, per ammissione stessa dell’autore, ed è difficile immaginare Bonvi mentre butta giù le tavole delle sue Sturmtruppen, o Umberto Eco alle prese con Baudolino, senza qualche pagina del buon soldato davanti.
Sc’vèik è uno degli ultimi, uno degli invisibili, ricco solo di buon umore e di una certa astuzia grossolana, sempre pronto a sfoggiare sorrisi paciosi e aneddoti per qualsiasi situazione. Cerca di sopravvivere in un’epoca di grandi cambiamenti vendendo cani bastardi come se fossero di razza dopo aver inventato loro pedigree adeguati. Riformato dall’esercito per reumatismi e in quanto giudicato da una commissione come “notorio idiota”, finirà lo stesso nella morsa del primo conflitto mondiale dopo essere stato sorpreso da un funzionario in borghese dell’impero a fare commenti inappropriati sull’imperatore in una delle bettole di Praga, tanto care ad Hašek, e di cui l’autore prende in prestito il linguaggio schietto per colorare le righe del suo romanzo.
Se il “preferirei di no” di Bartleby lo scrivano è una delle più forti grida di insurrezione, da seduto, all’ordine naturale e crudele delle cose, il “faccio rispettosamente notare” di Sc’vèik è il leitmotiv dell’insensatezza della guerra, dell’assurdità degli eventi, ma in una marcia scomposta tra presidii di polizia, manicomi, bettole, villaggi distrutti, stazioni ferroviarie abbandonate, vagoni merci carichi di uomini pronti al macello, e in tutto questo a Sc’vèik basta seguire alla lettera gli ordini ricevuti per far andare tutto a rotoli.
Tra i personaggi più memorabili che affiancheranno il buon soldato nel lungo viaggio verso il fronte, c’è il cappellano militare Otto Katz, beone per vocazione e religioso per convenienza, che si giocherà a carte Sc’vèik per riparare ai debiti contratti a causa dei suoi vizi. C’è il tenente Lukáš, che più cercherà di sbarazzarsi di Sc’vèik più se lo ritroverà tra i piedi. C’è il soldato semplice Baloun, la cui unica preoccupazione sarà riempirsi la pancia quanto più possibile. C’è il sottotenente Dub, convinto che Sc’vèik, dietro la sua notoria idiozia, sia un mariuolo di prima categoria. C’è il volontario con ferma annuale Marek destinato a scrivere le eroiche vicende belliche del battaglione di Sc’vèik e che si avvantaggerà durante i viaggi in treno inventando possibili scenari di guerra.
Sc’vèik quindi potrebbe essere un Lebowski austroungarico? Sì, perché, proprio come per il Drugo, pensare che in una qualche parte del mondo possa esistere un uomo del genere, uno che “la prende come viene”, conforta, dà un po’ più di tranquillità sapere che c’è uno come lui in giro, là fuori. In conclusione lascio la parola alla prefazione del libro, a chi il buon soldato l’ha conosciuto per davvero.
“Una grande epoca esige grandi uomini. Vi sono degli eroi ignorati ed oscuri, privi della fama e della gloria d’un Napoleone. L’esame della loro indole darebbe ombra perfino alla gloria d’Alessandro Magno. Oggigiorno si può incontrare per le vie di Praga un uomo trasandato, che non sa affatto quanta importanza abbia avuto la propria opera nella storia d’un epoca grande e nuova come questa. Egli percorre tranquillamente la sua strada, senza che nessuno gli dia noia e senza dar noia a nessuno, e senza essere assediato da giornalisti che gli chiedano un’intervista. Se gli domandaste come si chiama, vi risponderebbe con l’aria più semplice e più naturale di questo mondo: «Io son quello Sc’vèik…»
E quest’uomo cheto, semplice e trasandato è nientedimeno che il vecchio e buon soldato Sc’vèik, perseverante ed eroico, il cui nome al tempo dell’Austria era sulla bocca di tutti i cittadini del Regno di Boemia, e la cui gloria non tramonterà neppure sotto la Repubblica.
Io voglio molto bene al buon soldato Sc’vèik, e raccontandovi le sue avventure durante la guerra mondiale sono convinto che tutta la vostra simpatia si rivolgerà verso questo eroe umile ed oscuro. Egli non ha mica incendiato il tempio della dea in Efeso, come fece quell’imbecille d’Erostrato, allo scopo d’apparire sui giornali e nei libri di letteratura.
E ciò mi pare che basti.
Jaroslav Hašek”
[Immagine di copertina: Josef Lada, tratta dal libro Il buon soldato Sc’vèik]