Mia madre è un’arma, Fabio e Damiano D’Innocenzo, La Nave di Teseo, 2019
C’è una scena, straordinaria, in Favolacce che non si può inventare se non la si è vissuta o sognata. Un padre, personaggio anomalo capace di affittare una villetta con giardino per l’estate pur essendo disoccupato, sta cuocendo della carne sulla griglia, mentre il resto della famiglia attende in silenzio; l’atmosfera è attraversata da piccole scariche di tensione, nessuno può dirsi felice ma ammetterlo significa aprire la gabbia di Faraday che li isola dalle temibili scosse. Poi avviene l’impensabile: il figlio più piccolo non riesce a inghiottire un pezzo di carne e rischia di strozzarsi, il padre fa di tutto per salvarlo, compreso rivoltarlo sottosopra, e quando ci riesce non sa se piangere di gioia o infuriarsi per la cena rovinata.
Fotogrammi da quella terra di mezzo che non è più città ma che non si può nemmeno chiamare provincia, istantanee abbacinanti che i gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, prima che su grande schermo, hanno imprigionato dentro fogliacci e note sul cellulare, non potendone fare a meno e non sapendo che qualche anno dopo quell’insieme di poesie, grazie anche alla lungimiranza di Elisabetta Sgarbi, sarebbe diventata la raccolta Mia madre è un’arma (ed. La nave di Teseo, 15€).
Da Tor Bella Monaca, dove nascono, a qualunque casa possa ospitarli per il tempo necessario: nell’incessante pellegrinaggio che riguarda tanto loro quanto i genitori, a venir messa in discussione è l’idea di stanzialità legata all’ambito familiare. Non esiste una casa ma tante case e non esiste la nostra casa ma la loro casa o la mia casa, separazione difficile ma necessaria che crea ogni volta due realtà non attigue ma comunicanti, come suggerito nella poesia Monte Sabotino: « Non è più casa mia. / Lo capisco quando papà mi dice “Oh questa è sempre casa tua”. / Lo sta dicendo, quindi non vale, quindi è loro». Una casa da “650 euro” oppure un appartamento dove i cani prendono possesso del letto, le parole descrivono un’adolescenza raminga che è il seme di un cinema in continuo movimento, autodidatta, più portato a inventare un genere che ad aderire a uno già ampiamente codificato. Poesie scritte a quattro mani, due in un luogo e due in un altro, controllate vicendevolmente tramite email telegrafiche (recuperate l’intervista di Natalia La Terza su Esquire.com/it) ma che sembrano provenire da un unico paio di occhi: quelli che notano la sabbia sul polpaccio della madre di ritorno dal mare, il suo aggirarsi nuda per casa nell’unico componimento in cui la casa è nostra, Per pulire, “il modo in cui tornava con la spesa”. Sono momenti in cui gesti, espressioni, volti, oggetti, si imprimono nella camera oscura della memoria con la sincerità di uno scatto rubato, di una risata finta (Nella piscina dei vicini) che i D’Innocenzo recuperano da un flusso di ricordi simile a un fiume limpidissimo che non è mai lo stesso, o da una nuvola di farfalle in volo, ognuna di un colore diverso.
La raccolta è un diario, le poesie i giorni, ogni oggetto prende l’esatta forma del momento in cui è stata vista e la sorpresa, l’epifania, è sentirsi legati a uno scaldabagno, allo sbuffo di un divano, a piccoli dettagli necessari come i baffi poco curati del padre, alla Coca-Cola rinfrescante che attende lui e uno dei gemelli alla fine di una giornata di lavoro nel giardino di uno sconociuto. Quel fiume limpidissimo corre tra due sponde, una materiale e l’altra esistenziale. Sulla prima ci siamo già soffermati mentre la seconda è un territorio più brumoso dove Damiano e Fabio procedono con maggiore attenzione, consapevoli che a 26 anni (oggi ne hanno 32) si può finalmente capire cosa significhi essere figli ma non padri: «Non ho avuto un figlio di ispirazione per essere un buon figlio. / Però ho avuto un padre di ispirazione per essere un buon padre.» (Email a mio figlio), lo stesso tempo verbale per riferirsi a fasi distinte, prima il passato, poi il futuro.
Risultato di una consapevolezza imponente e di una capacità rara di lettura e sintesi, la raccolta è, in fondo, il racconto di ciò che resta di quegli anni e di chi, solo restando, può vincere.
[Foto di copertina: Damiano e Fabiano d’Innocenzo in una foto di Bonculture]